Foxconn all’assalto dell’Europa
Pubblicato il 13 dic 2013
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Tra Repubblica Ceca e Turchia, l’azienda taiwanese cerca di replicare il «modello cinese»: forza lavoro a basso costo e non sindacalizzata, infrastrutture e sostegno dello Stato
«Ci sono settimane in cui lavoro anche 62 ore, poi altre settimane lavoro 30 ore. Diciamo che vai da un minimo di tre giorni alla settimana fino a sei giorni a settimana. Così è impossibile programmare la tua vita privata». Verda è uno dei circa 350 occupati dello stabilimento turco avviato tre anni fa dalla Foxconn. Per quanto produca per conto dei principali marchi di elettronica quali Apple, Hewlett&Packard, Sony, Chimei, Innolux, la multinazionale taiwanese rimane ancora poco nota al grande pubblico. Scalpore avevano fatto qualche anno fa i suicidi di quasi venti operai cinesi che in pochi mesi si erano tolti la vita gettandosi dai tetti dei dormitori a causa di ritmi di lavoro estenuanti e del duro sistema di fabbrica. Questo articolo è frutto di un lavoro di ricerca iniziato nella Repubblica Ceca che mira ad analizzare e comparare le pratiche lavorative e manageriali della Foxconn in Europa e in Cina.
Una zona libera dalle tasse
Nello stabilimento di Corlu, Turchia occidentale, la Foxconn produce computer da tavolo in esclusiva per la Hewlett&Packard, all’interno dell’European Free Zone, a pochi chilometri dal «Corridoio paneuropeo n. 4», la principale arteria stradale che collega Istanbul con la Bulgaria, la Grecia e l’Europa centrale. Aperta nel 1999, la zona speciale contiene 150 imprese per una manodopera di circa 3500 persone in un’ area recintata e controllata. In Turchia questi spazi di eccezione, in cui l’unica forma di vita è il lavoro, sono una ventina e ospitano 4000 imprese con una forza lavoro di circa 51 mila persone. Gli investitori possono beneficiare di agevolazioni tra cui l’ esenzione totale dell’Iva e delle tasse sia sui profitti sia sui salari, nel caso almeno l’85% della produzione sia esportata. Come afferma Esen, ex manager licenziato in tronco qualche mese fa: «se non pagano le tasse sui salari, hanno un costo del lavoro che è quasi uguale a quello cinese». In effetti, per i soli salari il risparmio della Foxconn si aggira intorno ai 300 mila euro all’anno.
La scelta di produrre alle porte dell’Europa non è connessa solo al costo del lavoro, come ebbe a dire qualche anno fa Jim Chang, il numero due della compagnia e principale responsabile delle operazioni in Europa: «tempo e distanza sono cruciali per la competitività». La rete produttiva globale della Foxconn si espande monitorando diversi elementi: abbondante forza lavoro a basso costo e non sindacalizzata, vicinanza ai clienti, buone infrastrutture e una macchina statale di sostegno. Lo stabilimento turco costituisce una testa di ponte nella strategia di avvicinamento ai mercati di sbocco, insieme agli altri quattro siti produttivi della Foxconn in «Europa»: due nella Repubblica Ceca, e uno in Slovacchia e Russia. La fabbrica di Pardubice, nella Repubblica Ceca, è il polo centrale per l’Europa che batte il tempo della produzione negli altri stabilimenti europei. Ogni sito produttivo serve mercati diversi, così se gli stabilimenti all’interno dell’Ue riforniscono i clienti europei, quello turco soddisfa oltre alle esigenze locali, quelle dei clienti medio-orientali e nord-africani.
A Corlu la composizione della manodopera è omogenea e consiste di donne e uomini dai 25 ai 45 anni assunti con un contratto a tempo indeterminato. L’unica eccezione è l’elevata quota di «turchi-bulgari», giunti prevalentemente nel 1989 in fuga dalle pulizie etniche del régime comunista nei suoi ultimi mesi di vita. Non si distinguono però granché dalla forza lavoro locale, sebbene alcuni godendo del doppio passaporto, stiano pensando di [/ACM_2]tornare nell’Ue: «Fino a cinque anni fa pensavo che non sarei più tornato in Bulgaria, ma ora la situazione finanziaria è cambiata e anche se le condizioni di lavoro non sono molto migliori di qua, è possibile vivere una vita confortevole», ci racconta Metin. La logistica e la mobilità non è una questione che riguarda solo le multinazionali, ma anche gli individui. Tuttavia lo spatialfix della forza lavoro deve fare i conti con lo stigma del suo passaporto. Il veloce sviluppo industriale dell’area di Corlu ha permesso alla Foxconn di usare manodopera già addestrata al lavoro di fabbrica e attratta dagli stabilimenti di elettronica, considerati sovente tecnologicamente avanzati e con un ambiente di lavoro migliore, rispetto al tessile e al meccanico. Complice la crisi economica, la previsione della Foxconn di rapida crescita fino a 2000 occupati è stata per ora accantonata, per continuare a produrre in un capannone preso in affitto.
Robot umani
Le assunzioni avvengono attraverso canali sia informali sia formali. Nel corso degli ultimi due anni l’azienda si è avvalsa di alcuni programmi statali: il primo prevede un tirocinio di studenti delle scuole medie superiori; il secondo basato sul progetto Umem, finanziato dallo stato attraverso i locali centri per l’impiego (Iskur), è un apprendistato per i disoccupati. Le esperienze sono le medesime poiché il periodo di formazione è ridotto a poche ore, finite le quali si viene collocati in produzione dove le mansioni sono facili da imparare. Se l’azienda ospita solo una manciata di studenti ogni anno, ben più corposa è la pattuglia degli apprendisti che vengono selezionati negli uffici dell’Iskurdirettamente da personale della Foxconn. L’apprendistato di 264 ore dura circa 9 settimane: nel solo mese di giugno 2012 l’azienda ha accolto 50 apprendisti pagati dallo stato dai 7,5 ai 9,3 euro al giorno per otto ore di lavoro. Queste modalità permettono all’azienda sia un reclutamento più oculato sia un abbassamento del costo del lavoro, come racconta una di queste apprendiste: «ho fatto un colloquio con i manager e mi hanno detto che mi avrebbero assunto, ma prima dovevo fare il corso di apprendistato. Ho fatto questi due mesi in cui venivo pagato 20 lire turche (7,5 euro) al giorno per 10 ore al giorno; finito il corso, mi hanno assunto». Al termine del periodo apprendisti e tirocinanti dovrebbero essere assunti, ma più di qualcuno scappa prima.
All’interno della fabbrica, le operazioni lavorative sono abbastanza analoghe a quanto accade negli altri stabilimenti della Foxconn. Il lavoro è «semplice ma molto stressante» racconta Nissan: «i manager si preoccupano solo di raggiungere il target e ci trattano come robot, dimenticandosi che siamo degli esseri umani». In effetti, gli obiettivi produttivi sono pressanti e costantemente monitorati: le due linee di produzione assemblano nelle ventiquattro ore circa 5000 computer con una cadenza oraria di 110–115 computer. Le sollecitazioni del management per raggiungere questi target ricorrono al pratiche usuali: competizione tra le due linee di assemblaggio e tra lavoratori, bonus pari a circa il 10% del salario per chi raggiunge il target, uso di giovani lavoratori inesperti. La divisione gerarchica corre lungo la linea del genere e la dirigenza è in larghissima maggioranza composto da uomini; tuttavia i cambiamenti in atto nella società turca non sembrano consentire una gestione basata esclusivamente sul patriarcato più reazionario.
Lavoratrici e lavoratori si alternano in turni settimanali tra giornaliero e notturno sulla base di un sistema orario simile a quanto accade negli altri stabilimenti dell’azienda in Europa e in Cina: si lavora dalle 10 alle 12 ore al giorno per cinque o sei giorni alla settimana, ma talvolta meno se non serve. Alle lunghe ore di fabbrica i lavoratori aggiungono quelli del trasporto, da venti a sessanta minuti, effettuato da una decina di autobus messi a disposizione dall’azienda. La compressione del tempo di riposo è accentuata dalle richieste aziendali di rispondere in tempi rapidissimi alle necessità produttive. D’altra parte il nome Fox-conn allude all’abilità dell’azienda di produrre connettori elettronici con una rapidità paragonabile all’agilità della volpe. Le ricadute sui lavoratori sono piuttosto evidenti, come afferma Metin: «ci mandano un sms alle sei di ogni pomeriggio per dirci se inizieremo a lavorare alle otto oppure alle dieci dello stesso giorno. Questa incertezza nei turni è un motivo di litigio continuo con mia moglie». La variabilità degli orari di lavoro è raramente ricompensata dal punto di vista monetario, perché è sufficiente che nell’arco di due mesi, si siano svolte in media 45 ore a settimana, cioè quanto previsto dall’attuale legislazione turca. La flessibilità interna non è meno pressante e la manodopera è collocata in mansioni e reparti diversi sulla base delle esigenze immediate. Le paghe per chi sta alla linea di assemblaggio si collocano poco sopra il livello del salario minimo stabilito dal governo, 300–350 euro, che viene periodicamente aggiornato, esistendo in Turchia un unico livello reale di contrattazione, quello aziendale, là dove la fabbrica è sindacalizzata. I salari dei group leader, cioè dei capi linea, non si discostano molto da quello degli operai, aggirandosi intorno ai 380–420 euro al mese; gli stipendi delle altre figure professionali crescono poi lentamente sulla base della scala gerarchica.
Il sindacato alla porta
Il punto centrale per gli operai della Foxconn è la questione sindacale. La legge 6356 approvata alla fine del 2012 sulla contrattazione collettiva non ha migliorato la situazione: se prima per iscriversi occorreva recarsi presso uno studio notarile, ora il lavoratore deve obbligatoriamente registrarsi in un sito gestito dallo Stato. Il governo può posporre ogni tipo di sciopero per ragioni di sicurezza nazionale o di salute pubblica. Per quanto qualche ostacolo sia stato rimosso, anche la contrattazione collettiva rimane un percorso tortuoso poiché è possibile solo dove almeno la metà più uno – o in alcuni casi il 40% — dei dipendenti di un’azienda siano iscritti al sindacato. Per questo gli operai turchi distinguono le imprese sindacalizzate da quelle non sindacalizzate. Tuttavia il responsabile della sezione della «Turkish Metal» di Corlu ritiene che il processo di sindacalizzazione non vada perseguito con particolare fervore: «preferiamo aspettare che siano i lavoratori a recarsi al sindacato. Noi non spingiamo i lavoratori a iscriversi». Nel 2009 vi erano solo 1,26 milioni di lavoratori iscritti al sindacato su circa 22–23 milioni di occupati. Eppure la Foxconn non sottovaluta la presenza sindacale anche perché nella stessa Free Zone è vivida l’esperienza della fabbrica coreana Daiyang dove gli operai attraverso un durissimo conflitto hanno cercato di sindacalizzarsi. Nei primi mesi di attività la Foxconn aveva assunto anche del personale iscritto al sindacato. Una svista a cui il management ha velocemente posto rimedio sollecitando il ritiro della delega: «i manager hanno portato il notaio in fabbrica per far firmare loro la rinuncia all’iscrizione. E tutti hanno firmato perché altrimenti li licenziavano», dice Talat.
Il turbine del turnover
La perdita del posto di lavoro non viene tuttavia vissuta come una sciagura dagli operai, data anche l’ampia disponibilità di lavoro industriale nell’area. Anche chi come Demir parteggia esplicitamente per il management non crede molto alla filosofia aziendale della Foxconn: «Non mi sento di far parte di una grande famiglia, la Foxconn mira solo al profitto». In effetti per essere una grande famiglia, l’impresa taiwanese continua a registrare un turnover lavorativo eccessivo, il 20–30% annuo, in particolare tra gli operai. L’avvicendamento del personale è un turbine sia perché il licenziamento su due piedi è diffuso sia perché le persone preferiscono cercare lavoro altrove.
Il rapido sviluppo economico turco dell’ultimo decennio, sostenuto in buona misura dagli investitori stranieri, non ha ancora portato particolari benefici alla condizione operaia. Il malessere che cova sotto le ceneri di un apparente benessere economico è evidente e le manifestazioni contro il governo in giugno e settembre hanno raccolto nelle città vicine allo stabilimento una relativa partecipazione. Una parte dei lavoratori, anche dell’impresa taiwanese, ha partecipato direttamente, o ha sostenuto i figli nella loro scelta di scendere in piazza, ma, come Oktay ci ricorda, è all’interno dei luoghi di lavoro che rimane complicato organizzarsi: «In fabbrica gli operai continuano a parlare delle manifestazioni contro il governo e la maggior parte è favorevole. Non capiscono però che dovrebbero protestare a partire dalle loro condizioni di lavoro in fabbrica». Tuttavia, mentre in Cina dopo i suicidi e le proteste da parte degli operai l’azienda è stata costretta all’inizio del 2013 ad aprire, almeno formalmente, alla presenza sindacale, alle porte dell’Europa essa sembra intenzionata a mantenere l’accesso al proprio stabilimento riservato al business.
La versione integrale di questo articolo è disponibile sul sito: www.connessioniprecarie.org
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