“Valore cultura”? No, privatizzazione mascherata

“Valore cultura”? No, privatizzazione mascherata

di Stefania Brai

Come Berlusconi e Monti o inversione di tendenza? In realtà il decreto “Valore cultura” approvato dal Parlamento i primi di ottobre e quindi divenuto legge, ripropone pari pari la politica di “privatizzazione” della cultura portata avanti da tutti i governi di questi ultimi venti anni. Dico “tutti” perché – per fare un solo esempio – la trasformazione delle istituzioni culturali pubbliche in fondazioni di diritto privato è opera del governo Prodi e del ministro Veltroni.

Tralascio per ora l’analisi delle misure che la legge prevede per i “Beni culturali” (Pompei e molto altro) perché meritano un discorso a parte. Vorrei però mettere in evidenza un solo punto, perché è quello su cui ci si concentra maggiormente a livello propagandistico: i “500 giovani per la cultura” cui sarebbe garantito un lavoro. Non è così: i 500 giovani verranno sì «formati per la durata di dodici mesi, nelle attività di inventariazione e di digitalizzazione», ma alla fine del corso riceveranno solo un bell’ “attestato di partecipazione”, «valutabile ai fini di eventuali successive procedure selettive». Ripeto, «valutabile» ed «eventuali»: cioè nessuna prospettiva sicura di lavoro.

Mi limito quindi a tentare di ragionare su alcune delle misure che riguardano le “attività culturali”, anche se mancano i 17 decreti attuativi necessari non solo a rendere applicabile la legge, ma anche a chiarire le tante incongruenze e contraddizioni contenute nel testo.

Il presidente del Consiglio Letta e il ministro per la cultura Bray propagandano questa legge come una inversione di tendenza nelle politiche governative per la cultura.

In realtà l’unico intervento che si prevede da parte dello Stato in favore delle attività cinematografiche ed audiovisive e del “sistema musicale italiano” è costituito dal credito d’imposta: 4,5 milioni annui per la musica, e 110 milioni annui a partire dal 2014 per il cinema e l’audiovisivo.

Non si stanzia invece un solo euro per il Fondo unico dello spettacolo, fermo a circa 400 milioni. Il Fus è quel fondo che serve a dare contributi pubblici al cinema, al teatro, alla musica, alle fondazioni lirico sinfoniche, alla danza, ai circhi, alle istituzioni culturali (Biennale, Quadriennale, eccetera), alla formazione (Accademie, Conservatori, Centro sperimentale, per esempio), ai festival e alle rassegne, a tutto l’associazionismo culturale, alla stampa di settore, alla promozione della cultura in Italia e all’estero. Vale a dire a tutta l’attività di produzione, diffusione, formazione e promozione della cultura in Italia (in Francia solo per il cinema si investono più di 500 milioni annui).

Non è un caso, né una svista, né una necessità dovuta alla crisi. L’operazione che si sta facendo è invece molto chiara ed è certamente una inversione di tendenza, ma nel senso che si usano i soldi pubblici solo ed esclusivamente per incentivare fiscalmente e facilitare i finanziamenti privati. Si passa dal sostegno dello Stato alle opere, agli artisti e alle attività culturali al sostegno ai produttori e ai privati. Si chiama dismissione dell’intervento pubblico e privatizzazione mascherata della cultura.

Ancora. Se tutto questo (o forse solo questo) viene intitolato come «misure urgenti per il rilancio del cinema, delle attività musicali e di spettacolo dal vivo», perché non si è colta l’occasione per inserire una norma semplicissima (bastava un solo articolo) per vietare il cambio di destinazione d’uso di tutti i luoghi della cultura? Dai teatri, alle sale cinematografiche, alle biblioteche, alle librerie, solo per fare alcuni esempi. Per caso si andavano a toccare gli interessi di alcuni costruttori o imprenditori? In Italia non si può trasformare un ufficio in abitazione ma si può senza problemi trasformare una sala teatrale o cinematografica in supermercato. Questo è il valore che ha la cultura per questo governo?

Infine le fondazioni lirico sinfoniche. Forse la cosa più grave contenuta in tutto il decreto-legge. In pratica è una vera e propria riforma elaborata senza dare ascolto a nessuno, né ai sindacati né a tutti gli artisti e tecnici che nelle Fondazioni lavorano e operano. Mi limito a mettere in evidenza solo alcuni punti perché mi paiono quelli che anche qui più danno l’idea del valore reale che questo governo dà – anzi non dà – alla cultura.

Le fondazioni che non sono in pareggio di bilancio (che deve essere proprio un’idea fissa di questo governo) devono presentare un piano di risanamento da attuare entro tre anni, piano che deve inderogabilmente prevedere, tra le tante altre misure: la riduzione del personale tecnico e amministrativo fino al 50 per cento dell’organico; una “razionalizzazione” (?) del personale artistico; la cessazione dell’efficacia dei contratti integrativi aziendali; l’applicazione dei livelli minimi delle voci del trattamento economico fondamentale e accessorio previsti dal contratto nazionale. Qualcuno si ricorderà le battaglie (anche del Pd) contro gli “emendamenti Asciutti” sulle fondazioni lirico-sinfoniche alla legge Urbani durante il governo Berlusconi del 2005. Asciutti tuttavia non osò tanto. Ancora una volta, e anche qui come in tutta la politica di questo governo, sono i lavoratori a pagare. Inoltre, se non saranno rispettate tutte le misure indicate come “inderogabili” le fondazioni saranno poste in liquidazione coatta amministrativa. Cioè chiuse. Per una fabbrica che produce pomodori si andrebbe probabilmente più cauti. Ma se invece produce cultura… La Scala oggi è in pareggio. Ma se così non fosse, se per tre anni non riuscisse a mantenere il pareggio di bilancio, se per poter fare una produzione artistica di grandissima qualità o se per fare politiche economiche che consentano il più ampio accesso alla sua produzione culturale dovesse registrare delle perdite, questo governo penserebbe di chiuderla?

Dulcis in fundo. Si rideterminano i criteri per l’assegnazione della quota del Fus per le fondazioni. Il 50 per cento è ripartito in considerazione dei costi di produzione dell’attività dell’anno precedente, sulla «base di indicatori di rilevazione della produzione»; il 25 per cento in considerazione dei miglioramenti dei risultati gestionali, e finalmente il 25 per cento in considerazione della qualità artistica. Essendo una “istituzione culturale” è normale che solo un quarto del finanziamento tenga conto dell’attività artistica? Anche questa è sicuramente una inversione di tendenza. Ma non basta: quel quarto di finanziamento deve tenere conto «con particolare riguardo» dei programmi «atti a realizzare segnatamente in un arco circoscritto di tempo spettacoli lirici, di balletto e concerti coniugati da un tema comune e (atti) ad attrarre turismo culturale». Tradotto: la Scala, o il Teatro dell’Opera, o il San Carlo per essere sicuri di ricevere quell’ultimo 25 per cento dovranno proporre una programmazione e una attività artistica tutta concentrata in pochi giorni e monotematica (qualunque sia la disciplina artistica) per poter essere venduta come pacchetto turistico. Sempre grazie al “valore cultura”.

Non credo ci sia bisogno di aggiungere molto. Solo due considerazioni. La prima. Le fondazioni lirico sinfoniche hanno bisogno assolutamente di una riforma e questa legge poteva essere l’occasione. Ma hanno bisogno di tornare innanzitutto ad essere istituzioni pubbliche, di tornare a poter svolgere cioè il loro compito istituzionale che è di produrre cultura, cioè utile sociale. Un’istituzione culturale è pubblica proprio perché non può essere regolata – e quindi giudicata – in base ai risultati economici.

E per farlo occorre una riforma che ne rivoluzioni completamente il ruolo per farle diventare luoghi di produzione culturale, di conservazione e trasmissione della memoria, luoghi di sperimentazione e di produzione legati al territorio e aperti alle scuole e ai giovani; luoghi di formazione professionale e del pubblico.

La seconda considerazione. Queste politiche per la cultura rischiano di essere la prosecuzione peggiorativa delle politiche berlusconiane, perché ne condividono le idee di fondo mascherandole però per “inversione di tendenza”. L’idea cioè che la produzione culturale possa e debba essere equiparata ad una produzione aziendale, l’idea che alla cultura si possano applicare i criteri di efficienza, efficacia, economicità e di pareggio di bilancio, l’idea che i lavoratori siano un costo – anzi “il” costo – e che quindi vanno tagliati posti di lavoro, professionalità, esperienze, competenze. Quelle professionalità e competenze che ci hanno fatto grandi nel mondo, e che oltretutto una volta perse non si ricostruiranno più.

Si continua privatizzare ciò che non è privatizzabile, cioè il sapere, legando la conoscenza all’impresa e la cultura al mercato, riducendo da un lato il pluralismo dell’offerta culturale e dall’altro le possibilità di accesso ad essa.

Questo paese sta morendo di crisi economica e sociale e per le politiche che sono state messe in atto. Ma sta morendo anche perché si sta uccidendo la sua memoria, la sua cultura e il suo immaginario.


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