L’Abruzzo avvelenato

L’Abruzzo avvelenato

di Serena Giannico – il manifesto – Una delle aree più inquinate d’Italia, a Bussi sul Tirino (Pe), diventa emergenza ambientale europea. Alla sbarra tra qualche settimana la Montedison, accusata di disastro doloso e avvelenamento delle acque.

«Io sono del ’53 e sono nato proprio lì, nel posto dei veleni. Ricordo che ero alto un palmo – poteva essere il ’63 -’64 – e già vedevo, assieme alla mia famiglia, camion che scaricavano. Venivano di continuo, strapieni, e rovesciavano nell’erba i materiali trasportati». Benvenuto Cellini – «omonimo di un illustre artista fiorentino», come tiene a sottolineare – ricorda che quel «viavai incessante di mezzi pesanti è continuato per almeno 15-20 anni». «Pensavamo – aggiunge – che si trattasse di normali scarti, misti a terriccio, invece hanno fatto un macello». Perché erano sostanze letali. Così, ora, Bussi sul Tirino, piccolo centro in provincia di Pescara ma alle porte dell’Aquilano, da storico polo chimico internazionale, è diventato il Comune con una delle più imponenti emergenze ambientali d’Europa, una delle 37 aree più inquinate d’Italia.
Con una mega discarica abusiva, scoperta nel marzo 2007, che si trova in località Tremonti, sul fiume Pescara, sotto il ponte dell’autostrada, dove, per lunghissimo tempo, sono stati seppelliti immani quantitativi di tossine. E con altre due, ugualmente pericolose e ampiamente estese, situate a nord della zona industriale, per lo più dismessa e che carezza lo scorrere placido e verde del Tirino. Questi ultimi depositi erano stati autorizzati per lo smaltimento di inerti, invece contengono sostanze nocive di ogni genere. Tutte le aree, per complessivi sette ettari e mezzo, sono sotto sequestro. «Intorno ci siamo noi che aspettiamo la bonifica – riprende Cellini – e c’è un balletto di interessi. Troppi ce ne sono e, per questo, temiamo che non si venga a capo di nulla».

Un disastro miliardario
«Un disastro di immani proporzioni»: così viene definita la questione Bussi dalla Procura di Pescara che ha indagato sull’accaduto. «Una discesa agli inferi, in una valle di boschi, tra il Parco nazionale del Gran Sasso, i Monti della Laga e il Parco nazionale della Majella. Qui, dall’Appennino, fluisce una quantità enorme di acqua»: in questi termini, invece, ne parla il Wwf Abruzzo. «Ci sono – spiega Augusto De Sanctis, del Wwf – quasi due milioni di tonnellate di suolo contaminato, del volume di una collina alta 130 metri e con una base ampia come un campo di calcio. La situazione è drammatica. Dalle analisi, dagli studi e dalla valutazione fatta dall’Ispra (Istituto Superiore per la protezione e la Ricerca Ambientale) emerge un quadro generale angosciante: è stato stimato un danno ambientale di 8,5 miliardi». In quelle distese di sterpaglie rinsecchite, con radi cespi di fiori gialli e lilla e dove compaiono, di tanto in tanto, i cartelli ormai consunti apposti dalla Forestale e dalla magistratura, si celano centinaia di migliaia di tonnellate di scorie cancerogene. E ci sono le falde acquifere, anch’esse in condizioni deplorevoli. «Monitoraggi recenti – riprende De Sanctis – mostrano valori impressionanti: il cloroformio supera 453.333 volte i limiti di legge nella falda superficiale e 46.607 volte in quella profonda; il tricloroetilene 193.333 volte in superficie e 156 in profondità; il mercurio 2.100 volte nella falda superficiale; il diclorometano 1.073.333 volte in superficie e 3.267 volte in profondità; il tetracloruro di carbonio 666.667 volte nella falda superficiale e 3.733 volte in quella sotterranea. Come se non bastasse è stata accertata anche la presenza di diossina». Ma c’è dell’altro. «Perché – dicono ad Forum abruzzese dei movimenti per l’acqua – per decenni e fino al 2007, circa 500 mila cittadini della Val Pescara hanno utilizzato e bevuto acqua inidonea al consumo umano, succhiata da pozzi “impestati”, chiusi dopo le denunce del Wwf e di Rifondazione. Con quali conseguenze? Ad oggi non lo sappiamo, perché non esistono indagini epidemiologiche». «E l’inquinamento continua ad avanzare – ha confermato giorni fa il ministro dell’Ambiente, Andrea Orlando – tanto da arrivare a contaminare persino il porto di Pescara. Adesso bisogna fermare questo fenomeno».
Occorrono soluzioni urgenti. Ma con quali risorse? Per la bonifica servono circa 600 milioni: al momento ne sono disponibili 50, messi a disposizione dal governo dato che Bussi è nell’elenco dei siti nazionali contaminati che da anni campeggiano nel piano di bonifica del ministero dell’Ambiente. Briciole, che tra l’altro hanno scatenato una mezza rissa. In cui tutti sono contro tutti. Ad alzare la voce, in questa circostanza, è soprattutto il sindaco di Bussi, l’ex operaio ed ex sindacalista Salvatore Lagatta, di Rifondazione, fresco di nomina. «Quel denaro – attacca – arriva dai fondi del terremoto, che non ci ha risparmiato, e deve servire – per questo è stato stanziato – anche per la reindustrializzazione del posto, che supplica di ripartire dopo i fervori del passato».

«Chi sapeva ha taciuto»
C’era una volta “Bussi Officine”, zelante cittadella operaia, spuntata, a mano a mano, dal 1898, ai piedi del pittoresco omonimo paese. Dagli inizi del Novecento è ricchezza e progresso: nel 1926 conta 18 mila occupati, da tutta Italia. Il tempo è scandito dalle sirene della fabbrica, dallo stridere dei treni che si avvicendano, dalle lotte per i diritti dei lavoratori. «C’erano la sala cinematografica aziendale, il circolo, il dopolavoro, i campi da tennis. C’era tutto lì – rammenta il primo cittadino – , anche il rischio, purtroppo». E’ un sito unico, rappresenta l’eccellenza e l’avanguardia. Nel 1930 comincia persino la produzione dell’iprite, gas nervino che provoca ustioni terribili, messo al bando dalla Convenzione di Ginevra: verrà impiegato da Mussolini nella guerra d’Etiopia.
Negli anni Sessanta c’è il passaggio degli ormai obsoleti stabilimenti alla Montedison e Bussi diviene la Eldorado d’Abruzzo: i terreni attorno al “sobborgo” chimico-industriale vengono acquistati dal gruppo che crea un’isola felice. Almeno così sembrava. Dallo sviluppo al declino: nel ’99 c’è la cessione dell’intero polo produttivo da Montedison a Solvay che, a mano a mano, smantella e che, attualmente, pare intenzionata a chiudere e a spedire via l’ultimo pugno di dipendenti rimasto.
Sei anni fa la tremenda scoperta: un mare di rifiuti dannosi, nascosti, sepolti, sparpagliati in più punti e soprattutto a monte dei pozzi da cui sgorgava l’acqua, in teoria potabile, che riforniva uno spicchio di regione, fino a Pescara. «Sì, una volta zona florida – precisa il sindaco -, ma per quel benessere abbiamo pagato: esso è costato sacrifici e vite. Morti per incidenti e malattie tumorali». La megadiscarica? «Non è una sorpresa. C’è chi sa da sempre – accusa Lagatta -, ma ha taciuto. Diversi enti pubblici erano al corrente della sua esistenza e lo dimostra un accordo scritto. Ma questa è una scomoda verità che nessuno osa portare alla luce. A noi restano una bomba ecologica, sopra cui siamo adagiati, e disoccupazione. Questo è un paese che sta patendo la fame ed è per ciò che quei soldi non possono essere usati solo per opere di disinquinamento. Tra l’altro – incalza – fino a questo momento, dal commissario straordinario incaricato di risolvere la faccenda, Adriano Goio, sono stati spesi 4 milioni di euro, in interventi assurdi e inutili: prima ha fatto stendere un telone, una sorta di cappuccio, sulla zona contaminata, e adesso si stanno infiggendo palancole di 25 metri, connesse tra loro, che vanno a formare in profondità una parete metallica verticale, una sorta di recinzione. Come se, in tal modo, le sostanze tossiche non possano più girare… I siti hanno bisogno di un piano di caratterizzazione, di controllo costante e di essere risanati, non circoscritti e dimenticati. Si potrebbe cominciare immediatamente, col togliere i metalli pesanti, ad esempio».

Pronti alla class action
Dopo una complessa inchiesta, davanti alla Corte d’Assise di Chieti, è partito il processo, alle battute iniziali, con 19 imputati, tra ex vertici della Montedison, ex direttori e vicedirettori del colosso che ha gestito il polo chimico negli anni dello scempio ecologico: sono accusati di disastro doloso e avvelenamento delle acque. Tra ricorsi e controricorsi, a livello giudiziario è un braccio di ferro e, in aula il 27 novembre prossimo, quando di fatto il processo si aprirà, sarà battaglia dura. Montedison, nel frattempo, sta contribuendo – deve farlo per legge – alle spese di messa in sicurezza. Mentre Solvay è stata riconosciuta parte civile. «Noi avvieremo una class action – annuncia il sindaco Lagatta -. Non subito, ma l’ho scritto nel programma elettorale ed amministrativo e lo farò. Qualcuno dovrà pur risarcirci per i guasti incommensurabili che a livello economico e sociale stiamo patendo…». Emiliana ha 26 anni e lavora in un’alimentari nel cuore di Bussi. «Non si sa che cosa stiamo respirando e inalando – afferma -. C’è preoccupazione, di più tra i giovani. E ci sono parecchi casi di tumore». «Là sotto? Mah… – mormora un uomo con le buste della spesa e un piccolo gatto al seguito -. Quello che c’è effettivamente là sotto lo sa solo Dio».


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