Greenpeace, attivisti in carcere

Greenpeace, attivisti in carcere

di Matteo Tacconi – il manifesto - 

Spazi vuoti al posto delle immagini. Grigi, neri e bianchi. Ieri i siti di alcune testate liberali di Mosca, tra cui Lenta e Novaya Gazeta, non hanno inserito foto nella homepage. Una rimostranza, suggerita da Greenpeace, per protestare contro i due mesi di custodia cautelare affibbiati dal tribunale di Murmansk a Denis Sinyakov, fotografo russo.

Sinyakov è uno dei trenta attivisti di Greenpeace che a bordo della Arctic Sunrise, nave battente bandiera olandese, hanno ingaggiato nei giorni scorsi una protesta contro la piattaforma petrolifera Prirazlomnaya. È operata da Gazprom e si trova nel Mare di Barents. Mosca ne sta rastrellando i fondali, resi accessibili dallo scioglimento dei ghiacci artici. Con Gazprom è molto attiva anche Rosneft, altra corazzata russa dell’energia. Ma qualche fetta di questa grande torta andrà anche alle grandi compagnie straniere. Mosca ha concesso loro lucrosi diritti d’esplorazione. È questa nuova, grande corsa all’oro nero – partecipa anche l’Eni – la ragione dell’iniziativa di Greenpeace, fermata senza troppi complimenti dalla guardia costiera russa, che ha respinto i due attivisti che hanno cercato di scalare la struttura e preso in consegna la Arctic Sunrise.

La custodia cautelare, di tre giorni o due mesi, nella maggioranza dei casi, è scattata nelle ultime 48 ore per quasi tutti gli attivisti della Arctic Sunrise, inclusi il portavoce di Greenpeace Roman Dolgov (russo), il capitano Pete Willcox (americano) e l’italiano Cristian D’Alessandro. Domenica i giudici di Murmansk, la città portuale dove si sta conducendo l’inchiesta, si pronunceranno sul resto dell’equipaggio.

Per tutti l’accusa, con una pena che può arrivare fino a 15 anni, è quella di pirateria. Una forzatura, secondo molti giuristi. Tra questi Aleksandr Skaridov, docente di diritto marittimo all’accademia navale Makarov di San Pietroburgo. Per l’esperto, intervenuto sul sito di Russia Oggi, inserto mensile allegato a Repubblica e promosso Rossiyskaya Gazeta, giornale controllato dal governo di Mosca, questo reato si configura solo se l’obiettivo è prendere il controllo di un’imbarcazione. La piattaforma di Gazprom, essendo fissata al fondale, tale non è.

Skaridov però afferma che la Arctic Sunrise ha solcato le acque territoriali russe, non certo per esercitare il diritto pacifico di passaggio, quando cioè si segue una rotta, si esce da un porto o vi si entra. In altri termini è stata violata la sovranità marittima di Mosca, e questa dovrebbe essere l’accusa.

Il presidente russo Vladimir Putin è della stessa opinione. Martedì ha riferito che gli ecologisti non sono dei pirati, ma hanno comunque sia infranto la legge nazionale e il diritto internazionale. Parole che esortano a credere che l’accusa di pirateria potrebbe decadere, spostando su un altro piano l’azione del tribunale di Murmansk. Del resto la giustizia russa, che non brilla per indipendenza, s’adegua spesso alle consegne dall’alto. I casi delle Pussy Riot e dell’oligarca Mikhail Khodorkovsky lo dimostrano. Alle prime, dopo che Putin invocò una pena non troppo severa, sono stati scontati dodici mesi, a fronte di una richiesta di tre anni. Una forma di clemenza di cui il secondo, irriducibile delinquente, a sentire l’uomo forte di Mosca, non ha mai beneficiato. Se non i due mesi di condono stabiliti nell’appello lo scorso agosto. Un nulla, se comparato a una reclusione complessiva di quasi undici anni (terminerà nell’agosto 2014).

Nel giudizio di Putin sull’affaire Arctic Sunrise e nella possibile reimpostazione dell’inchiesta di Murmansk s’intravede il tentativo di arginare la slavina di critiche causata dall’accusa di pirateria. Tra l’altro l’accento riposto sulla legalità internazionale va accoppiato ai recenti orientamenti del Cremlino in politica estera. Mosca, sulla Siria, ha giocato con ottimo ritorno proprio la carta della legalità internazionale, opposta all’interventismo caldeggiato a Washington. Greenpeace, in ogni caso, respinge anche questa lettura e annuncia il ricorso, sostenendo che la sua nave, quando gli attivisti hanno cercato l’arrampicata sulla piattaforma, portandovisi a ridosso con dei gommoni, sostava a tre miglia nautiche dalla struttura, il limite che definisce il crinale tra acque territoriali e internazionali.


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