Lotta per l’indipendenza della cultura. Fenomenologia della disfatta

Lotta per l’indipendenza della cultura. Fenomenologia della disfatta

di Stefani Brai, responsabile Cultura Prc – da “I diari di Cineclub” – Si chiede investimento diretto dello Stato nella cultura a garanzia del pluralismo culturale e produttivo, della libertà artistica e del lavoro di promozione culturale.

L’egemonia cultu­rale di vent’anni di berlusconismo e, a mio parere, l’ ac­cettazione se non a volte la ripropo­sizione di quel si­stema di valori an­che da parte di vasti settori del “centro sinistra”, hanno prodotto spesso sbandamento se non passivizzazione e rasse­gnazione alla “situazione di fatto”. Voglio dire per esempio che si è da parte di molti introiet­tata l’idea che in un periodo di difficoltà eco­nomica e sociale così pesante sia impossibile chiedere finanziamenti per un settore consi­derato dai più “aggiuntivo”, e che quindi oc­corra accontentarsi di quel pochissimo che è rimasto. Magari ottimizzandone la spartizio­ne. Sono così diventati senso comune concet­ti come “pareggio di bilancio”, efficienza, effi­cacia ed economicità, fine dei finanziamenti “a pioggia”, meritocrazia, privatizzazioni, amministratori e ministri come unici sogget­ti legittimati a prendere decisioni, eccetera eccetera.

Con buona pace del pluralismo, del­la democrazia, e della cultura.

La logica, la fi­losofia di fondo che è passata – e che rischia di essere accettata anche da chi la cultura la pro­duce – è che, “merce” come le altre, la cultura possa essere lasciata ai meccanismi e alle logi­che di mercato: che cioè l’utile che si deve per­seguire è solamente o comunque principalmente un utile economico. Così il Consiglio dei ministri ha approvato un decre­to nel quale, tra le tantissime altre cose, si par­la addirittura di “valore cultura”, ma nel quale non si prevedono né investimenti né finan­ziamenti: la politica di questo governo è infat­ti tutta centrata sulla ricerca di fondi privati e sui modi per incentivarli (90 milioni di tax credit per il cinema, ora esteso per 5 milioni anche al settore musicale).

E se la cultura è una merce come le altre poco importa se si ta­gliano i fondi per le associazioni nazionali di cultura cinematografica, poco importa se chiudono riviste, biblioteche e sale cinemato­grafiche e se le istituzioni culturali sono ridot­te allo stremo. Poco importa se migliaia di ar­tisti e operatori culturali non hanno più lavoro. Poco importa se si perdono professio­nalità ed esperienze uniche e irripetibili.

Ed è gravissimo a mio parere che quel decreto sia stato considerato una grande vittoria e che la maggior parte delle associazioni professiona­li e culturali del cinema non abbia continuato le azioni di protesta e le agitazioni per ottene­re l’integrazione del Fondo unico per lo spet­tacolo, cioè per ribadire la necessità di un in­vestimento diretto dello Stato nella cultura a garanzia del pluralismo culturale e produtti­vo, della libertà artistica e del lavoro di pro­mozione culturale.

Io credo invece che questa politica rischia di produrre la “morte” della cultura. Della cultura intesa come strumento di formazione di una coscienza critica, di co­noscenza della realtà, di crescita individuale e collettiva, quindi elemento essenziale di de­mocrazia e di “uguaglianza sociale”, come af­ferma la Costituzione. È proprio in un mo­mento così difficile che va a mio parere con maggiore forza riaffermato che la cultura è un diritto, e come tale va garantito dallo Stato, con investimenti finalizzati all’utile culturale e dunque sociale. Va riaffermata con tutta la forza possibile la necessità di mettere in atto una politica complessiva per tutto il settore: che vuol dire, tra l’altro, sostegno alle sale “di città”, vuol dire formazione, vuol dire garanti­re ammortizzatori sociali e diritti ai lavorato­ri della cultura, luoghi pubblici per la cultura in tutte le periferie del nostro paese e delle no­stre città, ma vuol dire anche una politica vera di “promozione” della cultura cinematografi­ca. In tanti modi: sostenendo convegni, semi­nari, ricerche, pubblicazioni, festival, rasse­gne, ma sicuramente e prioritariamente rafforzando il lavoro unico dell’associazioni­smo cinematografico.

A poco servirebbe riu­scire con immensa fatica a dare vita ad una creazione artistica se contemporaneamente non esistesse quel lavoro immenso e diffuso che tutti i giorni e su tutto il territorio contri­buisce a far conoscere il cinema di qualità ai tanti e diversi “pubblici”, a formare genera­zioni di critici, di operatori culturali e di regi­sti, a far crescere i saperi e la conoscenza, a combattere la passivizzazione e la solitudine.


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