Trionfo Merkel, grazie tante alla Spd.
Pubblicato il 24 set 2013
di Marco Bascetta – il manifesto -
La fine era nota. Almeno nella sostanza. Poi, naturalmente, c’è una questione di proporzioni, di relazioni, di scelte soggettive. Che in politica contano, eccome. Tuttavia la vicenda tedesca non si discosta di molto dalle coordinate che da circa un ventennio regolano la partita tra destra e sinistra in Europa. Il “trionfo” di Angela Merkel (fatta salva l’abilità politica di cui non difetta) ha un nome ben preciso: Gerhard Schroeder, il leader socialdemocratico giunto alla cancelleria nel 1998. Fu lui con la sua celebre «agenda» a riformare nel 2003 il mercato del lavoro, facendo pagare in termini di bassi salari e perdita di forza contrattuale dei lavoratori la relativa tenuta dell’occupazione e la competitività delle imprese tedesche. Precarietà, correzione al ribasso delle prestazioni sociali, divario crescente tra i redditi più alti e quelli più bassi. Si guadagnò l’epiteto di «cancelliere dei padroni», applicando con il massimo zelo, come molti altri leader europei della sua parte politica, le ricette liberiste. Il lavoro sporco era fatto da chi avrebbe almeno dovuto arginarlo. E il costo elettorale per la Spd fu enorme. Alle elezioni del 2009 ben 10 milioni di voti presero commiato dalla socialdemocrazia e il lieve recupero di domenica scorsa è ancora tutto nella scia di questa catastrofe.
Ad Angela Merkel veniva così offerta la possibilità di mostrare il volto meno duro del conservatorismo, perfino di fare scivolare a sinistra l’asse del suo partito, la Cdu. Stabilità e competitività erano garantite e il prezzo sociale ne era stato pagato fino in fondo. Non restava che proporre all’Europa intera questa fortunata vicenda come modello da imitare. E la “grande coalizione” come espressione politica di una mancanza di alternative universalmente accettata.
Il Pasok greco (reduce da un tracollo elettorale di enormi proporzioni) e il Pd italiano sono stati i primi ad accettare l’invito e mettersi all’opera. Con il problema aggiuntivo, qui da noi, che, prigioniero della sua demagogia, Berlusconi il lavoro sporco lo aveva fatto solo a metà e ora si sforza di accollarlo al suo travagliato alleato di governo.
Il «trionfo» della Merkel ha però fatto vittime anche nel campo della destra che già sosteneva il suo governo. Il risultato della Cdu non si spiegherebbe senza l’incasso dei voti liberali della Fdp che ha subito una catastrofica disfatta elettorale, perdendo 10 punti percentuali e restando fuori dal Bundestag. La ragione è semplice, i liberali tedeschi non servono più. Sui diritti civili e le libertà individuali la posizione di Angela Merkel non è più quella da Scene di caccia in bassa Baviera di pura e semplice persecuzione della devianza. E, quanto al rigore liberista, non c’è certo bisogno in Germania di qualcuno che ne strilli esageratamente le virtù già sufficientemente apprezzate. I padroni hanno avuto il loro cancelliere socialdemocratico e ora hanno la saggia amministratrice delle sue riforme. La cosiddetta “borghesia illuminata” non ha di che preoccuparsi.
I verdi si sono visti sottrarre l’argomento che per tanti anni ne aveva determinato il peso nell’opinione pubblica tedesca: il nucleare civile. E, per il resto, i tratti «alternativi» e radicali dei Gruenen si sono andati appannando sempre di più nel corso del tempo. Difficile dire quale possa essere oggi la funzione e l’appeal di questo partito.
C’è da chiedersi, infine, perché la Linke non sia riuscita a intercettare più significativamente il voto delle vittime della crisi e degli strati più svantaggiati della popolazione, che pure nella Repubblica federale non mancano davvero. In qualche misura può avere influito il tardivo e modesto tentativo della Spd di rispolverare alcune tematiche più classicamente socialdemocratiche (salario minimo e tassazione delle grandi rendite), ma in buona sostanza la Linke (la cui discendenza dalla Rdt non è ormai che uno spettro propagandistico agitato dai suoi avversari, se non per i suoi elettori nostalgici dell’est) condivide con altre sinistre radicali europee l’incapacità di intercettare la nuova composizione del lavoro e il nomadismo sfruttato delle giovani generazioni. Come ha dimostrato, fra l’altro, il fenomeno effimero dei Piraten. Anche qui il problema non è specificamente «tedesco», rientrando nel più vasto quadro della crisi della sinistra nelle economie più sviluppate.
L’ostilità nei confronti dell’Euro e dell’Europa, che ha sempre serpeggiato in diverse formazioni, non ha avuto la forza sufficiente per «farsi partito» che conta ( anche se il 4,8% conseguito da Alternative fuer Deutschland non è poi così trascurabile). È un sentimento, quello antieuropeista, con debole capacità di convincere e condizionare. I tedeschi non temono l’Europa che li teme. Il calcolo costi/benefici resta tutto a vantaggio dell’Unione. Angela Merkel è convintamente europeista, sostenitrice di una Unione intergovernativa in cui i governi forti dei paesi forti pesano fortemente. Ma in cui gli interessi della rendita e i privilegi delle élites varcano i confini, si intrecciano, solidarizzano, si rinsaldano. Non mancano, insomma, complici a sud come a nord. Tuttavia la cancelliera sa anche che per mantenerla, questa Europa, si dovranno trovare i margini di manovra per soddisfare altri bisogni e altre esigenze. Che l’instabilità sociale può minacciare quella economica. La Germania ha dimostrato di possederli, almeno per il momento. Altri paesi meno. E bisognerà permetter loro di costruirseli in qualche misura. E’ su questa misura che può aprirsi una nuova partita nello spazio europeo, una forzatura politica dei limiti imposti dai governi (e dalle sinistre). Nuovi soggetti per un nuovo processo costituente.
Resta quel tanto di seggi che mancano ad Angela Merkel per una maggioranza assoluta. La Spd non si pronuncia, sa bene che dovrà fare i conti con un’estrema asimmetria. Ma la grande coalizione è nella logica di questa storia, nella quale le sinistre di tutto il continente si sono ficcate da tempo: quella di una Unione sempre e solo liberista. A meno di avere la forza di uscirne (dalla storia, non dall’Unione), rifuggendo però ogni tentazione di disertare la dimensione europea.
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