Questa depressione senza fine non è inevitabile
Pubblicato il 17 lug 2013
di Paul Krugman – Il Sole 24 Ore – Le ultime notizie di politica economica mi suscitano una reazione strana. Qualcosa succede: la Federal Reserve ha fatto un pasticcio comunicativo, contribuendo a minare i già modesti progressi dell’economia; la Commissione europea sta un po’ allentando le sue richieste di rigore; la Banca d’Inghilterra sembra produrre forward guidance che produrrà forward guidance; e così via. Ma a parte – forse – l’Abenomics in Giappone, è tutta robetta di poco conto.
Ed è una delusione. Era in corso un epico dibattito intellettuale sulle politiche di austerity, che è finito (sempre che dibattiti di questo genere possano mai finire) con una vittoria schiacciante degli antirigoristi. Eppure nel mondo reale non è cambiato quasi nulla: i paladini dei sacrifici sono impegnati a inventare ragioni discutibili per irrigidire la politica monetaria e la disoccupazione di massa prosegue.
Certo, qualcosa potrebbe succedere: una nuova tecnologia che stimola grossi investimenti, una guerra o magari un accumulo sufficiente di «usura, degrado e obsolescenza», per citare John Maynard Keynes. Ma a questo punto dubito seriamente che possano esserci eventi tali da costringere le autorità ad agire.
Prima di tutto, immagino che molti di noi fossero convinti che una situazione di disoccupazione alta e persistente avrebbe condotto a una forte deflazione, magari in rapida accelerazione, e che questa deflazione avrebbe spinto le autorità a prendere misure energiche. Ormai è chiaro, tuttavia, che il rapporto tra inflazione e disoccupazione si livella su tassi di inflazione bassi. Probabilmente possiamo avere disoccupazione alta e prezzi stabili in Europa e negli Stati Uniti per moltissimo tempo, e tutti i savi vi diranno che è solo un problema strutturale e che non si può fare nulla finché i cittadini non accetteranno tagli drastici allo Stato sociale.
Ma non ci sarà una pressione crescente da parte dei cittadini perché siano prese iniziative? Non è così scontato: in Europa cresce l’insofferenza verso le politiche di rigore, e questo potrebbe provocare una crisi, ma gli studi condotti negli Stati Uniti giungono alla conclusione schiacciante che il livello di disoccupazione per vincere le elezioni non conta quasi nulla: conta soltanto il ritmo a cui varia nei mesi prima del voto.
In altre parole, una situazione di disoccupazione alta potrebbe essere accettata come la nuova normalità, sia in politica che nell’analisi economica.
Quello che sto dicendo è che ho paura che la gente potrebbe finire per accettare una depressione più o meno permanente, potrebbe finire per pensare che è così che vanno le cose; ho paura che dovremo sopportare sofferenze interminabili e innecessarie, senza che le alte sfere della politica e della politica economica avvertano mai la necessità di cambiare metodi.
A parte questo, passate una bella giornata.
Il club dell’errore perenne
Aha. L’editorialista finanziario Floyd Norris ci ha ricordato recentemente, sulle pagine del New York Times, di una lettera aperta al presidente della Federal Reserve Ben Bernanke da parte di 23 economisti nel 2010, che metteva in guardia dalle severe conseguenze – «svalutazione della moneta e inflazione» – del quantitative easing. L’elenco dei firmatari è una sorta di who’s who dell’errore: si va da Niall Ferguson ad Amity Shlaes e a John Taylor. E si sono sbagliati anche questa volta.
Eppure questo non intacca neanche un po’ la loro reputazione a destra. Come lo so? Beh, nell’elenco – presumibilmente perché gli avevano chiesto gli altri di aderire – c’è anche Kevin Hassett, uno degli autori del libro Dow 36,000, nonché illustre negazionista dell’esistenza di una bolla immobiliare. Mi puoi fregare una volta, mi puoi fregare una seconda volta… e mi puoi fregare una terza, una quarta, quante vuoi tu. Davvero incredibile.
(Traduzione di Fabio Galimberti)
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