Die Linke a congresso

Die Linke a congresso

di Claudio Grassi -
Un anno fa, più o meno di questi tempi, la Linke correva seriamente il rischio di spaccarsi. Poi il congresso di Gottinga decise di assegnare i due posti di comando a una candidata dell’est, Katja Kipping, e a un uomo di Lafontaine, Bernd Riexinger, sindacalista di Stoccarda. Fu quello l’apice dello scontro nel quale vennero fuori, da una parte e dall’altra, gli intransigenti di ambedue le anime del partito: da un lato, gli irriducibili a qualunque rapporto con la Spd, dall’altro, i sostenitori di alleanze di governo a prescindere. Il livello di litigiosità era arrivato a tal punto che Gregor Gysi, presidente del gruppo della Linke al Bundestag, parlò di «odio» e di «arroganza» da parte dei compagni di partito dell’ovest. L’idillio con Oskar Lafontaine sembrava alla fine. Assieme avevano deciso di fondere la Pds e la Wasg e di far nascere la Linke. Nei primi anni i fatti diedero loro ragione. Il partito collezionò una sequenza di successi locali fino a conquistare l’11 per cento dei voti al Bundestag nel 2009. Poi arrivarono le fratture, le divisioni, le contrapposizioni. Lafontaine si spinse fino a rivendicare la guida del partito solo per sé, rifiutando accordi politici con l’ala dell’est. «Se ci odiamo tanto, meglio la scissione», sentenziò Gysi, stufo – a suo dire – di sentire dare lezioni di radicalismo dai compagni dell’ovest a quelli dell’est impegnati nelle amministrazioni locali. Poi, nel braccio di ferro, Lafontaine rinunciò a candidarsi e ai vertici andò il ticket Katja Kipping-Bernd Riexinger.

A un anno di distanza la situazione è completamente cambiata. Kipping e Riexinger, a detta anche degli osservatori esterni, hanno lavorato bene e portato la quiete dopo la burrasca. «Abbiamo messo da parte i litigi sterili». All’indomani del terzo congresso che s’è concluso domenica scorsa a Dresda, l’immagine della Linke sui giornali è quella di un partito che si presenta unito agli elettori alla vigilia delle elezioni di settembre per il Bundestag. «Nello scorso congresso a Göttingen abbiamo fatto un congresso infuocato», ricorda Gysi. «Io stesso ho fatto un intervento infuocato. Chi oggi si aspetta da me un intervento del genere rimarrà deluso. Da allora abbiamo preso la direzione giusta. Le diverse aree del nostro partito hanno finalmente capito che siamo legati gli uni agli altri. Se va via una parte, siamo morti. Se va via l’altra parte, siamo morti lo stesso. Dobbiamo semplicemente imparare a rapportarci tra di noi con rispetto».
La formazione della sinistra tedesca si presentava a questo congresso dopo una sequenza di prove elettorali certo non esaltanti. Anzi a dirla tutta, deludenti. Solo per citare gli ultimi casi, nei Länder Schleswig-Holstein, Nordrhein-Westfalen e Niedersachsen (tutti all’ovest) il partito non è entrato in parlamento, rimanendo ben al di sotto della soglia di sbarramento del cinque per cento. Solo nei Länder dell’est la Linke tiene con percentuali fino al venti per cento.  Ma non può bastare per un partito che tra i suoi obiettivi storici ambisce a costruire in tutto il territorio una forza nazionale a sinistra della socialdemocrazia che sia stabilmente rappresentata nel sistema partitico tedesco. Lo ha ribadito anche Gregor Gysi nel suo intervento al congresso: dopo la fine della Ddr abbiamo dovuto percorrere «un cammino difficile per essere accettati e poter diventare all’est un partito di massa. All’ovest ci siamo riusciti con il contributo di Oskar Lafontaine, è grazie a lui che siamo diventati un partito a livello nazionale. Per la prima volta nella storia della Repubblica federale tedesca, ormai da otto anni a questa parte, esiste una forza politica a sinistra della socialdemocrazia, ancorata nel sistema dei partiti, che non può essere cancellata, anche se qualcuno lo desidera. Di questo dovremmo essere orgogliosi. Chi lo avrebbe mai creduto nel 1989». Un’operazione niente affatto semplice, niente affatto scontata. In Italia, per dire, le forze frammentate della sinistra non sono ancora riuscite a realizzare nulla di simile.

Quali sono le novità nel programma della Linke? I lavori congressuali non hanno apportato grosse modifiche alla bozza di programma che era già stata sottoposta alle integrazioni o modifiche da parte degli iscritti da un mese a questa parte. Dal punto di vista dei contenuti non si notano neppure differenze vistose rispetto al passato. L’obiettivo della giustizia sociale e della redistribuzione della ricchezza è il filo che tiene assieme le proposte approvate e votate alla fine dei lavori nel programma elettorale definitivo. Per esempio, l’aumento delle retribuzione, la tassazione dei grandi patrimoni, l’introduzione di aliquote fiscali per i redditi alti, l’aumento del sussidio di disoccupazione, un piano pubblico di investimenti per uscire dalla crisi, pensioni minime di solidarietà a 1050 euro, riequilibrio salariale tra est e ovest, edilizia pubblica, una riforma solidaristica del sistema sanitario. E, poi, ancora: il ritiro delle truppe e il divieto di esportare armi nel mondo. Le differenze rispetto al precedente programma, semmai, si notano negli accenti, nei toni, nello stile politico. Nel partito, in passato, c’è chi se la prendeva con una linea politica troppo “lafontainiana”, così intransigente al punto da precludere qualsiasi partecipazione a maggioranze di governo. Non si può dire che nel nuovo programma si abbassi la guardia e neppure che in qualche modo si stemperi la critica alla Spd. Si intravede però la preoccupazione di riaprire uno scenario politico che negli ultimi tempi si è bloccato e rischia di relegare la Linke in una condizione di inefficacia nelle scelte di governo nazionale.
«Anche grazie a noi la giustizia sociale è diventata un tema centrale della politica», dice Gysi rivendicando i punti centrali del programma, «abbiamo messo il salario minimo all’ordine del giorno», «introdotto la questione della giustizia fiscale» e poi quella «degli affitti, dei prezzi dell’energia, della sanità, della lotta alla povertà degli anziani». Ora, però, tutto questo «deve diventare realtà». I sondaggi mostrano che esiste nella società «una maggioranza che vuole gli stessi obiettivi che noi rappresentiamo e che la maggioranza del parlamento invece rifiuta. Il problema è come facciamo a trasformare una maggioranza nella società in una maggioranza politica in parlamento. Questo è il nostro compito. Dobbiamo spiegare agli elettori che questa chance si dà soltanto se la Linke mantiene il suo peso o anzi si rafforza. Mi vengono continuamente poste domande su una eventuale coalizione con la Spd e i Verdi. Anche qui dobbiamo porci all’offensiva. La domanda è se la Spd e i Verdi sono pronti a uscire dalla melassa dei vecchi partiti e mettersi finalmente dalla parte della maggioranza della società». E’ un’offensiva che mantiene la critica alla socialdemocrazia e nello stesso tempo rilancia quelle che hanno tutta l’aria d’essere discriminanti politiche per una coalizione di governo – che finora, però, Spd e Verdi hanno respinto. Gysi nomina l’abbassamento dell’età pensionabile, l’aumento delle retribuzioni, l’istruzioni e gli asili, la patrimoniale, l’emergenza casa e, soprattutto, la cosiddetta riforma del mercato del lavoro “Agenda 2010? introdotta dalla Spd ai tempi di Schröder e pagata a caro prezzo in termini di consenso. «Quando chiederete scusa? Quando vi deciderete ad abolire il lavoro sottopagato e il lavoro interinale?». Eppure alcuni aspetti in comune ci sono, soprattutto se si tiene conto di alcune proposte sociali avanzate dalla Spd in campagna elettorale. Per esempio, l’introduzione di un salario minimo di dieci euro e lo smantellamento delle assicurazioni private nella sanità.

Infine, da questo congresso ci si aspettava una resa dei conti sul tema dell’euro e della permanenza nella moneta unica. Ad accendere il dibattito alla vigilia è stata un’intervista di Oskar Lafontaine. Per la prima volta in maniera esplicita un dirigente della Linke ha aperto all’ipotesi di uscire dall’euro e tornare a un sistema di monete nazionali, vincolate tra loro da limiti di oscillazioni nei cambi. La stessa proposta è stata ripresa da un altro dirigente di spicco del partito, Sahra Wagenknecht, che ha persino sostenuto l’esistenza di punti in comune con il nuovo partito antieuro “Alternativa per la Germania”, nato pochi mesi fa. Di fatto, però, il dibattito sulla moneta unica non ha impegnato più di tanto i lavori del congresso. Nel programma la questione è trattata nello specifico: «Anche se l’unione monetaria europea contiene grossi difetti di costruzione, la Linke non si batte per la fine dell’euro». Ma la condizione perché la moneta unica possa durare è «la fine della politica di austerità». Una mozione che avrebbe ridimensionato questo passaggio e alluso al ritorno alle monete nazionali è stata respinta a maggioranza nel corso del congresso. Per ora, nulla di più. Al momento, la posizione della Linke la allinea di fatto a molte altre forze della sinistra europea, Syriza in primo luogo, che vogliono cambiare le regole dell’Ue, ma non uscire dall’euro. Altra cosa, invece, è la discussione a livello teorico nel partito che rimane aperta. «L’opinione di Oskar Lafontaine – ammette anche Gysi – è totalmente legittima e ne discuteremo nel merito. Voglio solo spiegare perché non è opportuno rivendicare l’uscita dall’euro. Significherebbe impoverire l’Europa del sud e provocare un tracollo per le nostre esportazioni con conseguenti problemi sociali. Può anche essere che la politica di Angela Merkel finisca per distruggere l’euro, ma questo non può essere il nostro desiderio». Sta di fatto che di euro e moneta unica se ne discuterà ancora. Ora si tratta però, da qui alle elezioni, di misurare la forza della Linke e verificare se essa riuscirà o meno a spostare il baricentro del sistema politico tedesco. Se l’obiettivo evocato nel congresso di un risultato a due cifre resterà un miraggio lontano o si trasformerà in una buona notizia per tutta la sinistra europea. I sondaggi, per quel che contano, la danno tra il sei e il nove per cento.


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