La rimozione della crisi

La rimozione della crisi

di Alberto Burgio -
I lettori del manifesto dovrebbero rileggere attentamente e meditare le conclusioni dell’articolo di Felice Roberto Pizzuti apparso su queste pagine martedì scorso. Dopo avere descritto la miscela esplosiva che sta devastando l’economia del paese e le condizioni di vita delle classi subalterne (attacco ai redditi da lavoro; deindustrializzazione e caduta del Pil; crisi della fiducia; crescita della disoccupazione, dell’inflazione e dell’ineguaglianza), Pizzuti notava come nessuna delle cause strutturali della crisi esplosa cinque anni fa sia stata rimossa. Al contrario, tutto va come se non fosse accaduto nulla. La finanza insegue indisturbata rendimenti sempre più elevati degli investimenti speculativi, gonfiando bolle destinate a provocare effetti ancora più dirompenti di quella dei mutui americani. Le banche e gli enti locali sono sempre più coinvolti nel business dei derivati (Mps docet, e c’è solo da sperare che non scoppi la bomba atomica delle banche tedesche). L’economia reale è in blocco e la politica economica è polarizzata dall’ossessione dei bilanci pubblici, letti con le lenti del più miope e gretto monetarismo. Fingendo di ignorare che le politiche di austerità non possono non aggravare, insieme alle sperequazioni sociali, la situazione debitoria dei paesi che hanno difficoltà ad attrarre investimenti dall’estero.
È uno scenario da incubo, che la dice lunga sull’irresponsabilità delle classi dirigenti europee. O sulla loro responsabilità al cospetto di interessi e poteri diversi da quelli degli Stati democratici che dovrebbero servire. Ma c’è di peggio, come se ancora non bastasse. Pizzuti lamenta, a ragione, l’egemonia dell’agenda Monti, che «costituzionalizza» il neoliberismo. E denuncia il silenzio della campagna elettorale sulle scelte economiche dei prossimi anni. Un silenzio che di quell’egemonia è l’effetto naturale e il più preciso criterio di misura. Un silenzio che lascia facilmente presagire che dopo il 25 febbraio non cambierà nulla, se non qualche nome proprio di chi ci governerà. Conosceremo altra povertà e altra disoccupazione. Moriranno a migliaia altre piccole e medie imprese. Vivremo in una società sempre più iniqua e disuguale. E ascolteremo quotidianamente, come ormai da anni, sermoni inutili e ipocrite promesse.
Qualcuno dei nostri lettori ricorderà che alcuni mesi fa (lo scorso luglio) il manifesto denunciò con forza il «furto d’informazione» che sui temi della crisi i media commettono ogni giorno a spese della cittadinanza. Osservavamo che la crisi che sta distruggendo la nostra società è politicamente pericolosa almeno quanto quella degli anni Venti del ’900, che spinse la Germania tra le braccia di Hitler a seguito di politiche deflazionistiche analoghe a quelle dettate oggi dalla Commissione europea. E denunciavamo il fatto che tutti i giornali (tranne il manifesto) e tutte le radio-televisioni (nessuna esclusa) presentano le politiche del rigore come se non vi fossero alternative. Come se non esistesse al mondo la possibilità di praticare politiche espansive che, privilegiando occupazione e crescita, ci porterebbero fuori dalla crisi riducendo disuguaglianza e iniquità. Come se ad alimentare la crisi non fossero proprio le scelte dei governi e delle istituzioni comunitarie, che persino il Fmi e gli Stati Uniti giudicano dissennate e insostenibili.
Questo denunciavamo. Argomentando che la cattura cognitiva operata dai media a danno dei cittadini imprigiona questi ultimi nella gabbia di un pensiero unico che impedisce loro di comprendere che cosa sta accadendo e quanta violenza subiscono da parte dei governi con l’alibi della crisi e nel nome del «risanamento». Abbiamo lanciato quelle accuse per l’intollerabilità della situazione, ma anche in previsione delle elezioni politiche di questa primavera. Nella consapevolezza che, se il furto di informazione fosse continuato anche nella campagna elettorale, ne sarebbero sortiti effetti dirompenti sia sul terreno economico-sociale, sia sul piano della legittimità democratica.
Purtroppo non solo nulla è cambiato in meglio, ma le cose sono peggiorate. E oggi, a meno di un mese dal voto, la nostra denuncia non può che essere ripetuta, con voce ancor più alta. Almeno nelle settimane che precedono il voto, in un paese democratico la scena mediatica dovrebbe essere aperta a un confronto realmente plurale.
Dovrebbe dare visibilità alle diverse letture dei problemi più seri e alle diverse idee di come affrontarli. Al contrario, avviene quanto osserva Pizzuti. Parlano di fatto solo gli zelanti esegeti dell’agenda Monti, a cominciare dal suo illustre autore. Pare esistano soltanto gli alfieri del rigore, persuasi che il pareggio di bilancio e il rientro dal debito siano obiettivi scolpiti nelle Tavole della legge. Ne viene fuori un quadro indegno di una democrazia, che il vecchio Brecht non esiterebbe a porre sotto l’insegna del fascismo democratico. Di tutto si parla fuorché dell’essenziale: delle cause reali della disperazione di tanta povera gente; di chi grazie a questa crisi sta accumulando enormi profitti; e del fatto che nessuno dei tre contendenti «compatibili» (centrosinistra, centrodestra e montiani) intende cambiare strada, colpendo patrimoni e rendite, esigendo che la Bce assuma le funzioni di una vera Banca centrale e varando politiche espansive per la piena occupazione.
Di recente Reporters sans frontières – certo non imputabile di simpatie comuniste – ha pubblicato un rapporto sulla libertà d’informazione dal quale risulta che in Italia c’è meno pluralismo e libertà nella diffusione delle notizie che in Namibia, Bulgaria e Corea del Sud. Come sempre, la spiegazione è il conflitto d’interessi di Silvio Berlusconi, ma questa ormai è una foglia di fico. Che i giornali e le televisioni del Cavaliere facciano il loro sporco lavoro è ovvio, ed è indecente che i suoi presunti avversari non abbiano fatto mai nulla per impedirlo. Ma quanto a parzialità e conflitti d’interesse la cosiddetta stampa indipendente e il sedicente servizio pubblico non sono da meno. E non hanno nulla da invidiare alla grancassa del padrone di Arcore.

Il Manifesto – 31.01.13


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