Perché è in palio la nazionalizzazione

Perché è in palio la nazionalizzazione

di Vincenzo Comito, Enrico Grazzini -
Sono ormai in molti a pensare che il Monte dei Paschi di Siena dovrà essere probabilmente nazionalizzato. Non è una questione di scelta politica ma di aritmetica finanziaria.
Nel complesso lo stato italiano metterà in MPS, fra Tremonti e Monti bond, circa 3,9 miliardi, senza contare le garanzie concesse sulle obbligazioni emesse da MPS per decine di miliardi. Le risorse complessivamente impiegate dalla Fondazione MPS che controlla la banca sono ormai diventate meno di un terzo di quelle erogate dallo stato. La Fondazione MPS è già minoritaria.
E non sarà facile per la banca guidata dal presidente Alessandro Profumo restituire la montagna di soldi prestata dallo stato ad un tasso che va dal 9 al 15%. Senza contare che ancora è difficile capire quale è l’ampiezza vera del buco nei conti della banca. La nazionalizzazione potrebbe diventare una necessità per non far fallire la terza banca italiana e salvaguardare (come è indispensabile) il risparmio dei suoi sei milioni di correntisti. E, senza fare inutili allarmismi, non è neppure detto che l’intervento dello stato non debba estendersi ad altre banche, dal momento che i bilanci degli istituti bancari sono, per usare un eufemismo, abbastanza opachi.
Ma la nazionalizzazione è un bene o un male? Risolve i problemi o li aggrava? E quali altre possibili soluzioni possono esistere?
Le risposte non sono semplici. Per gli ultra-liberisti la nazionalizzazione è sempre un male: gli economisti liberisti vorrebbero che lo stato stesse lontano dalle banche quando guadagnano, ma che mettesse i soldi quando perdono, però senza cambiare proprietà e management. Ma in generale è invece un bene che chi mette i soldi, cioè in questo caso lo stato con il denaro dei contribuenti, comandi. Del resto l’intervento dello stato nelle banche non è certamente un fenomeno nuovo in questa crisi. L’ultraliberista Gran Bretagna ha di fatto salvato e nazionalizzato le banche in crisi, come il gigante Royal Bank of Scotland, sborsando miliardi di sterline. E la Germania ha nazionalizzato Commerzbank, la seconda banca tedesca. Operazioni di salvataggio da parte dello stato sono state effettuate in tutti paesi, in Francia e in Belgio come in Gran Bretagna, in Germania e negli Stati Uniti, dove è stata nazionalizzata AIG, la principale assicurazione del mondo. Del resto economisti premi Nobel come Joseph Stiglitz e Paul Krugman hanno invocato la nazionalizzazione delle grandi banche sistemiche in via di fallimento. L’esempio più notevole di nazionalizzazione è quello della Svezia all’inizio degli anni 90. Le banche erano in grave crisi, lo stato intervenne diventandone il proprietario, cacciando il management che aveva fallito, ristrutturando le banche e riportandole al profitto, e quindi rivendendole ai privati con lauti guadagni. Ma non è detto che lo stato italiano debba per forza rivendere le banche risanate ai privati come detta il credo liberista. La proprietà potrebbe anche restare pubblica. Molti però obietterebbero allora che la proprietà pubblica è per sua natura inefficiente: del resto questo è il ritornello che l’economista Stefano Boeri ripete attaccando le fondazioni come longa manus del potere politico.
La verità è invece che il potere pubblico può essere migliore di quello privato: del resto i clamorosi fallimenti di tutte le principali banche private americane – e di numerose banche private europee – in questi anni hanno ampiamente dimostrato che il privato non è proprio sinonimo di efficienza. Il vero problema del Monte dei Paschi di Siena non è solo quello di essere stato condizionato pesantemente dalla politica, ma piuttosto – al di là delle eventuali responsabilità personali dei manager per reati e frodi – di avere giocato con i derivati per coprire i suoi debiti dovuti a ambizioni di gigantismo (cioè all’acquisizione di Antonveneta), proprio come hanno fatto le maggiori banche private d’affari che hanno provocato questa drammatica crisi globale: ma questo Boeri non lo dice.
Del resto le «vecchie» banche pubbliche italiane, come per esempio la Comit, non erano certamente peggiori di banche private come Intesa e Unicredito (che pure derivano dalle pubbliche Comit e Credito Italiano). E Raffaele Mattioli, il mitico banchiere della pubblica Comit, forse non era meno brillante di Corrado Passera, già dirigente della privata Intesasanpaolo.
Il vero problema è di trovare gli strumenti adatti per eliminare la lottizzazione e la corruzione partitica e mantenere l’autonomia della gestione pubblica: non è facile ma non è neppure impossibile. Una delle soluzione potrebbe essere quella di spingere per la democratizzazione degli istituti bancari, con la possibilità da parte dei lavoratori (dei lavoratori, e non dei sindacati) di eleggere dei loro rappresentanti nel board, come avviene nel sistema tedesco di governo delle imprese.
Quasi sicuramente la presenza dei lavoratori nel board aumenterebbe la trasparenza del business bancario, che è centrale per il rilancio degli investimenti, e quindi per l’occupazione. Una banca pubblica sana potrebbe competere con le banche private ma soprattutto potrebbe rendere un servizio fondamentale alla società: potrebbe finalmente ricominciare a dare credito alle aziende e alle famiglie per rilanciare l’economia.
Il problema attuale è che le banche private incamerano centinaia di miliardi di euro da parte della Banca europea e da parte degli stati ma non li ridistribuiscono all’economia reale, che resta soffocata. Invece una banca pubblica potrebbe facilmente fare arrivare il denaro direttamente alle aziende alle famiglie. Un sistema bancario policentrico e diversificato, basato su banche pubbliche, banche private nazionali e internazionali, banche di territorio cooperative e popolari, potrebbe più facilmente affrontare la crisi e rilanciare l’economia. Occorrerebbe poi naturalmente cambiare le regole, per esempio separare nettamente le attività di banca commerciale da quelle di banca d’affari, e mettere fuorilegge i contratti derivati speculativi, come quelli che hanno rovinato MPS, che sono il 95% del totale.
Cina e India, per fare solo due esempi, non ammettono contratti derivati, e sono rimasti fuori dalla crisi finanziaria che è partita dall’America ma che è diventata più grave in Europa sia per la folle politica d’austerità sia perché le banche europee hanno acquistato più derivati di quelle americane. Ma non è necessario aspettare l’Europa per mettere fuorilegge i derivati speculativi. Si può fare anche in Italia, ma il governo Monti certamente non lo farà, e non è neppure detto che lo farà il governo Bersani. Però sono queste le chiavi per uscire dalla crisi.

Il Manifesto – 31.01.13


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