La cultura della sconfitta e la mancanza del progetto
Pubblicato il 27 mar 2013
di Ugo Boghetta -
In un precedente articolo (Liberazione febbraio ) affrontavo l’andamento delle assemblee del PRC, Cambiare si Può, Rivoluzione Civile alla luce della psicologia dell’emergenza (la branca che studia le reazioni a eventi drammatici). Notavo che, parimenti, i nostri comportamenti potevano essere assimilati a “shock da stress post traumatico”. Dopo l’ennesimo disastro elettorale, non mi sembra che i nostri comportamenti siano cambiati. Ognuno, individuo o gruppo, si aggira più o meno suonato fra le macerie. Ci sono anche casi di spaesamento totale: ferree certezze sono sostituite da folli confusioni. Si ripetono mantra che dovrebbero tranquillizzare ma che, in realtà, nascondono una forte depressione.
Dinnanzi al dramma bisognerebbe avere in primo luogo la cultura della sconfitta: si dice che si impara di più dalle sconfitte che dalle vittorie. E ri-affrontare i propri assiomi teorici e politici; ma è difficile. Ne indico alcuni a mo’ di esempio.
La sinistra d’alternativa in genere basa azione, politica, programma, cultura attraverso la somma e giustapposizione della “moltitudine” di temi e conflitti: lavoro, ambiente, democrazia, diritti civili. Ciò aveva un senso, almeno temporaneo, nel movimento noglobal; ma la crisi del 2008, l’incedere minaccioso degli effetti dell’euro, hanno spazzato via anche quell’apparente giustezza.
Si pensa davvero che lavoro tradizionale, più precariato, più reddito di cittadinanza sia un modo per creare l’unità del lavoro e la sua centralità? È pensabile produrre un’egemonia in questo modo? L’esempio del referendum sull’acqua è eclatante: Egemonia culturale su di un solo oggetto, nessuna in termini politici.
La risposta è ovviamente negativa, eppure, abbiamo cancellato qualsiasi riferimento ad un modello alternativo: quello che in America latina chiamano il socialismo del XXI secolo. Abbiamo rinunciato ad essere sinistra e comunisti.
I corollari di questa impostazione sono ancora più devastanti. Per alcuni il sociale, i conflitti, sono immediatamente politici e si rappresentano da soli in quanto tali. Per altri basta una coerente rappresentazione nelle istituzioni. Per altri ancora – SEL – ritorna l’autonomia del politico. Per non dire di coloro che si sono inventati la reversibilità del PD: “tutto può succedere”. Assistiamo così a presunte grandi diagnosi ma nessuna terapia. Le matrici storiche di questi cortocircuiti sono tante: si va dallo spontaneismo ad un certo operaismo, al comunismo imbalsamato.
Tutto ciò, per altro, non tiene conto di due cose fondamentali. Siamo nel modello capitalista peggiore: il liberismo che tutto spacca, precarizza, frammenta. La scala sociale si allunga. Il potere si nasconde. La democrazia borghese arranca. L’ideologia dominate è populista: Bossi, Berlusconi, Di Pietro, Grillo, Vendola. La stessa elezione del Papa argentino lo conferma.
La realtà che si vede è quella manipolata dal liberismo. La sommatoria dei pezzi di questa realtà non ci porta da nessuna parte: finiamo sempre per lavorare per altri, eppure fatichiamo addirittura a concepire la problematica stessa.
Per questo è necessario un progetto. Ciò richiede un ragionamento sul blocco che, o viene unificato da una proposta politica di un rinnovato classismo oppure da una forma populista. Grillo ha rappresentato dall’alto tutti i conflitti che, invece, sono stati riottosi o contrari ad unificarsi dal basso.
Di seguito prospetto alcuni questioni. I lavoratori garantiti non sono oggi così alternativi: non hanno da perdere le catene, ma un lavoro decente. Le partite IVA, sebbene abbiano verificato sulla loro pelle che la libertà che pensavano fosse una balla, non chiedono il superamento del loro status, ma garanzie. Artigianato e piccola industria sono conto-terzisti: una forma di dipendenza non meno forte di quella del lavoratore. Per costoro la penuria di credito e l’euro sono un cappio. La finanziarizzazione della vita quotidiana ha pervaso la società fini in basso e impone un rapporto con le borse, i titoli, lo spread. Ciò spiega gli atteggiamenti contraddittori popolari rispetto alla crisi. Per non parlare degli intellettuali, anch’essi così diversi da quelli gramsciani. Gramsci, non a caso, parlava di “blocco storico” fondato sul rapporto – specifico in una certa fase – fra struttura e sovrastruttura. Serve pertanto un’analisi di classe dei rispettivi rapporti. Cosa assai complicata da leggere oggi poiché i rapporti nel neoliberismo sono fortemente mutati e, a volte, rovesciati. Il tema di un progetto alternativo è anche imposto dalla stessa situazione di crisi delle classi dirigenti del nostro paese e del rispettivo blocco.
Questi pochi esempi e problematiche dimostrano come un’uscita a sinistra dalla crisi sia pensabile solo con un progetto di cambiamento che, non solo, valorizzi diversamente e per un bene comune le varie risorse lavorative, cognitive, finanziarie; ma le trasformi sganciandole dalla finanza, dal mercato, dall’individualismo, dal consumismo. In questo quadro, la questione dell’euro-Europa, un nuovo e diverso intervento pubblico, la questione banche, possono essere la condizione ed il motore del cambiamento del modello economico e dei rapporti sociali. Gramsci, ma anche Lenin. Quest’ultimo non tanto sulla forma-partito – che pure è un tema connesso – ma per un’azione politica che converga con forza sui vari punti di crisi che man mano si presentano. Questo richiede anche un altro modo di avvicinarsi alla costruzione del soggetto di questo cambiamento che, dubito, possa essere la semplice somma dei ceti politici. In questo senso servirebbe aprire una battaglia culturale e politica fra la scelta di stare in un modello americanizzante dei conflitti e della politica , l’unificazione dall’alto da parte del leader populista di turno, o la costruzione di un progetto di unificazione che preveda anche la propria trasformazione. Altrimenti continuiamo anche noi a stare, sul piano sociale e politico, in questo esterno gattopardismo del: “tutto cambi ma che nulla cambi”.
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