Ma vale davvero la pena di morire d’austerity?

Ma vale davvero la pena di morire d’austerity?

di Marco Alfieri -
Quanto si potrà ancora tirare la corda? Quante altre elezioni dovranno passare prima di fermare questa slavina? Quanti nuovi disoccupati dovranno unirsi all’esercito dei 24 milioni di senza lavoro che si aggirano oggi per il vecchio continente? Il trionfo di Beppe Grillo e la totale ingovernabilità uscita dalle urne italiane sta facendo fibrillare mezza Europa.

La terza economia dell’eurozona è un detonatore di domande scomode: va bene le riforme e il risanamento ma che succede se l’occupazione non riprende prima di un anno? Che succede se l’area del disagio e la recessione continuano ad allargarsi senza speranza? E le imprese fallire? E le banche stringere il credito? Di risposte non ne arrivano e a prevalere sono le formazioni anti-austerity e anti-riforme che, alla meglio, produrranno risultati nel medio termine.

Già ma nel frattempo? Come si fa a gestire una società democratica, che non cresce abbastanza per assorbire i posti di lavoro dei suoi giovani, spesso ben scolarizzati, e insieme a trattenere occupazione matura e formata? Questo è un qualcosa che in Europa non era mai accaduto e da cui non si vede, purtroppo, una via d’uscita. Ma solo disastri.

C’è come un filo rosso che lega insieme buona parte del vecchio continente al tempo dello spread e delle elezioni, della disoccupazione e del crollo dei consumi, ed è un filo macabro e pericoloso. Quasi una integrazione in negativo. Ne dà conto in questo dossier “austerity” Giovanni Del Re nel suo racconto sulle vertigini e le preoccupazioni che serpeggiano a Bruxelles, dove si comincia a paventare che «l’insofferenza dei cittadini alla lunga è molto più pericolosa dell’impazienza dei mercati…». Nei conciliaboli tra potenti d’Europa in questi giorni non si parla d’altro. I cittadini non possono fare sacrifici all’infinito senza vedere uno sbocco. Se non si danno segnali d’inversione, piani e risorse per la crescita, è a rischio la tenuta sociale.

Fior di rapporti di banche d’affari e dispacci diplomatici, confermano apertamente questi timori. «Mi ha colpito molto che il mese scorso Jean-Claude Juncker, lasciando il suo ruolo di presidente dell’Eurogruppo, abbia parlato di reddito minimo di cittadinanza, è quasi la rottura di un tabù…», ha raccontato ieri a Linkiesta il presidente dell’Istat Enrico Giovannini. «Se addirittura un personaggio che si occupava di deficit e debito parla di questa opzione, significa che in Europa vale il detto: “Houston, abbiamo un problema”…». Forse più di uno a guardare la deriva della Grecia, come ci racconta nel dossier Luigi Pandolfi. Ormai un paese che rischia la catastrofe umanitaria in tempo di pace. Persino la Croce Rossa è costretta a tagliare le forniture di sangue perché Atene non ha i soldi per pagarle. Incredibile e macabro nel nostro cortile di casa.

La stessa Italia conquistata da Grillo, come racconta Antonio Vanuzzo, è una valle di lacrime: disoccupazione, fallimenti, consumi a picco, banche in difficoltà. Basta così? Niente affatto. Se la deriva spagnola è stata sviscerata in tutte le salse, persino in Germania c’è chi, come la giornalista economica del Tageszeitung, Ulrike Herrmann, invita a scacciare i demoni del rigorismo, temendone il boomerang. Il rischio, infatti, è che «l’austerity distrugga anche noi…». È davvero questa l’Europa che vogliamo costruire?

da Linkiesta.it


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