Il miraggio della crescita
Pubblicato il 2 apr 2014
La metafora non è irriverente: è lo specchio fedele delle sensazioni del popolo greco, come di larga parte della popolazione europea. Particolarmente fastidiosa è l’ipocrisia della potenziale crescita. Come ogni anno la crescita si avvicina, per poi perdersi per strada. La crescita europea è stimata all’1,2%, in contrazione rispetto alle stime iniziali. Restando all’Italia, nel corso di soli 3 mesi, le stime di crescita si sono ridotte del 50%, da l’1,1% a 0,6%.
Tra poco il governo Renzi, il 10 aprile, produrrà il Def (documento economico e finanziario); valuteremo l’impatto economico e sociale delle misure. Per il momento la disoccupazione ufficiale sale al 13%, la più alta dal 1977, mentre l’occupazione è agli stessi livelli del 2000. Se poi considerassimo le persone che non fanno domanda di lavoro, ma sarebbero disponibili a lavorare, gli scoraggiati e financo la cassa integrazione, la disoccupazione reale salirebbe al 24%. La disoccupazione giovanile è quella prevalente? Non è sorprendente: la riforma Fornero ha fatto danni inenarrabili. Considerando, inoltre, il livello quali-quantitativo della domanda di lavoro delle imprese, i nostri ragazzi e ragazze hanno ben poche possibilità di trovare un lavoro coerente con il loro livello di formazione.
L’aumento della disoccupazione è coinciso con il più basso livello di protezione dell’impiego e la più bassa produttività del lavoro (Paolo Pini). Ma dove sono tutte quelle persone che associavano la bassa produttività del lavoro alla sua presunta rigidità? L’Italia è il paese delle meraviglie: il più basso indice di protezione del lavoro, 1,86 contro una media Ocse di 2, con le ore lavorate per addetto tra le più alte al mondo. Solo per fare un esempio: in Germania si lavora 1397 ore, in Italia 1752. Alla faccia della rigidità del lavoro.
I problemi che l’Europa deve affrontare sono enormi. Come può il pil crescere se gli investimenti continuano a contrarsi? Lo spirito santo potrebbe anche aiutarci, ma più realisticamente si potrebbe adottare una sana politica economica in cui la spesa pubblica diventi un attore del cambiamento. Si tratta di scegliere tra le miserie del 3%, il rapporto tra indebitamento e pil, e del 60%, il rapporto tra debito e pil, e le annunciate politiche industriali che, nonostante tutto, la Commissione continua a suggerire.
L’Europa deve scegliere tra il progetto Europa 2020, con tutte le implicazioni ambientali, energetiche e lavoro buono, e la povertà (procurata) nella società dell’abbondanza. Non dovrebbe essere difficile scegliere.
Al vertice di Atene si sprecheranno i richiami all’ordine costituito. Le principali dichiarazioni sono perentorie: l’Italia non sfori i vincoli di bilancio, ma faccia le riforme. Il commissario Rehn è fiducioso che l’Italia rispetterà gli impegni; la ripresa si rafforza, ma preoccupa l’inflazione bassa.
Porca miseria: la deflazione. Di questo passo le imprese non copriranno i costi di produzione e chiuderanno i battenti.
Fortunatamente sono vicine le elezioni europee. Occorre un orizzonte adeguato. Non basta dire no all’euro. Servono proposte forti. Almeno due devono essere prese in considerazione: l’aumento del bilancio pubblico europeo al 4% del pil, oggi è all’1,2%; il finanziamento dello stesso via imposta europea (tobin tax o imposta sul valore aggiunto) per evitare lo strapotere dei paesi che finanziano direttamente la Commissione.
La forza delle idee è più forte degli interessi costituiti. Caro Keynes, spero che la tua fede nella forza delle idee sia travolgente.
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