Ecco perché bisogna cancellare il fiscal compact
Pubblicato il 27 mar 2014
di Roberto Musacchio
C’è una domanda secca che sta alla base del prossimo voto delle elezioni europee: cancellare il fiscal compact. Questo è il punto chiave senza il quale ogni idea di cambio di marcia o di direzione è puro balletto, anzi un dimenarsi sulle sabbie mobili, quelle dell’austerità, che così facendo ti ingoiano ancora più rapidamente.
Il giro di valzer europeo del giovane Renzi ha messo in mostra come già sullo 0,2% il gioco si fa duro e non basta qualche battutina ammiccante o spavalda per venirne a capo. I primi distinguo di Confindustria, come sempre oscillante tra “partito tedesco” e “partito americano” e con la speranza di “beccare” i benefici, per sé, di entrambe le soluzioni, mandano primi avvertimenti.
Con il Fiscal Compact sono in gioco addirittura 3 punti annui, per 20 anni, di riduzioni per scendere al famigerato 60%. Roba da guerra totale. Ma, soprattutto, roba che non sta in piedi. Gli specchietti che alcuni economisti pubblicano ci dicono che rispettare il Fiscal Compact costa 50 miliardi l’anno. Poi provano a dire che la cifra si può ridurre se ci sarà la crescita, alla metà col 2%. Ma il problema è che di questa crescita non c’è traccia e, come si è visto in tutti i Paesi sottoposti alla cura dell’austerità, i tagli creano perdita di Pil che il Fmi ha calcolato assai più ingente di quello che era stato previsto dalla Troika.
Ma non solo. Il punto è che si continua a dare una lettura di parte, e sbagliata, del debito. Debito come colpa e come colpa nazionale. Ora è certo che i governi hanno in molti casi assai male operato ma così si occultano le cause assai più strutturali del debito. Come si sarebbe dovuto ormai abbondantemente ricostruire in modo conclamato esse sono almeno tre.
Una, data dalla globalizzazione, la svalutazione sistematica del lavoro, leggi una riduzione dei redditi, che ha spostato il sostegno alla crescita prima sull’indebitamento pubblico e poi su quello privato. Lo sfondamento operato dalla rendita finanziaria che ha ottenuto per sé una quota di redditività assolutamente insostenibile. Terzo, nello specifico europeo, una integrazione viziata da un ideologismo liberale che invece che affrontare con l’armonizzazione i fattori deleteri per la convivenza in area di moneta unica come i differenziali dei tassi di occupazione e delle bilance commerciali, prima “gestiti” con la svalutazione, si è “affidata” alle liberalizzazioni finendo con l’aggravarli. Scelta, naturalmente, non neutra o puramente “sbagliata” ma indirizzata dalla volontà di usare la frusta del combinato liberalizzazioni – austerità per ricercare un “patto borghese” intorno alla messa in angolo del lavoro, alla riduzione del pubblico per lasciar spazio al profitto privato, ad una integrazione produttiva di stampo “tedesco” ma in realtà di matrice di classe.
Non è un caso che ancora oggi, il giovane Renzi che contesta l’idea di fare i compiti a casa su dettatura rivendica di farli per sé e ripropone, come fece Blair dopo la Tatcher, una innovazione nella continuità e cioè l’accompagnare qualche distinguo sulla austerità con il calcare sulle deregolamentazioni ulteriori del lavoro e un nuovo drastico taglio del pubblico. Con prospettive assai più fosche di quelle blairiane data la gabbia dell’austerità ormai consolidata e i problemi posti dalla integrazione europea di matrice liberale. Infatti, in questo, quadro, neanche un qualche presunto impulso alla ripresa dei consumi, leggi i famosi 80 euro, regge il peso dei tagli né le conseguenze del peso strutturale dei differenziali integrativi europei.
A dircelo è la Germania che usa i suoi aumenti produttivi per sostenere il dumping delle proprie esportazioni e che soffoca un pur teorico ricorso alla crescita dei consumi come soluzione in un quadro in cui non si modifichino le relazioni economiche strutturali. Come sono solo palliativi, per quanto appetibili, le grida contro le alte retribuzioni quando il problema è si tagliare queste ma anche alzare strutturalmente tutte le altre.
Se questa lettura del debito inquadrato nella globalizzazione e nella europeizzazione è motivata, la soluzione passa obbligatoriamente dal rovesciamento di segno di entrambe e in particolare della integrazione europea. Dire come fa Grillo che l’alternativa è uscire dal Fiscal Compact o dall’euro rischia di essere un semplice passare dalla padella alla brace in cui la brace è l’uscita dalla moneta unica mentre insistono tutti i fattori strutturali che determinano la subordinazione dei soggetti e delle economie deboli.
L’alternativa è invece trasformare un debito ampiamente causato dai fattori europei da questione falsamente nazionale a questione europea, anzi basilare per la costruzione di un’altra Europa. La strada cioè dellaeuropeizzazione di tutto il debito eccedente il 60%. In tal modo esso diverrebbe ampiamente sostenibile e motiverebbe solidaristicamente l’esistenza della UE. Non solo. Determinerebbe le condizioni per affrontare le cause strutturali del debito stesso dedicando ingenti risorse precisamente ad una armonizzazione condivisa dei fattori di squlibrio e cioè i differenziali occupazionali e commerciali e produttivi e a un aumento strutturale dei redditi compreso il ricorso al salario di cittadinanza. Le risorse per questa operazione, da affidare ad un grande piano di economia solidale e sostenibile europeo, vengono da un ridimensionamento strutturale delle rendite, con tassazioni e riforme, da un impiego di quote di surplus produttivi oggi usati a sostegno esportativo dai Paesi forti e da risorse dei Paesi liberati dal debito.
Si tratta così di ricostruire un percorso solidale e comunitario alla unione europea ricollegandosi a ritroso a quei valori fondanti le Costituzioni democratiche che erano, esse si, il possibile viatico ad una Europa che si integrava grazie al proprio modello sociale e democratico. Purtroppo si è scelto di perseguire un percorso opposto, quello di un funzionalismo governista ed economicista, poi degenerato con l’incombere della globalizzazione liberale. Questo percorso ci sta consegnando non all’Europa compimento delle sue costituzioni rilanciate in chiave europea ma ad una sorta di nuova società delle nazioni tenuta insieme dal codice del wto, e cioè il peggio del passato e del presente.
Cancellare dunque il Fiscal Compact è il punto obbligato di inversione di rotta.
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