La trappola del capitale umano
Pubblicato il 20 feb 2014
di Benedetto Vecchi – il manifesto – Pensiero critico. Il neoliberismo non è solo una teoria economica in crisi ma anche un progetto politico che vuol ridisegnare la società e cambiare «l’anima» di uomini e donne. Un’intervista con Christian Laval, in Italia per presentare il volume «La nuova ragione del mondo» scritto insieme a Pierre Dardot
Come un’araba fenice, il neoliberismo rinasce sempre dalla sue ceneri.. Non c’è nessun compiacimento nel segnalare la sua «resistenza» rispetto le crisi che ha conosciuto. Anzi, la crisi è il contesto in cui mostra capacità di «innovazione». È da queste premesse che il libro La nuova ragione del mondo (DeriveApprodi) di Pierre Dardot e Christian Laval prende le mosse. L’analisi dei due studiosi france è circoscritta alle realtà capitalistiche europea e statunitense, rinviando in un secondo tempo l’analisi dei paesi emergenti — Cina, India, Brasile, Sudafrica -. Questo non significa che il saggio — al quale è stato dedicato il numero dell’inserto settimanale «Alias» del 30 Novembre 2013 — non aiuti a delineare una critica rigorosa a un regime di accumulazione capitalistica che ha una vocazione «globale». Quello di Dardot e Laval non è infatti una analisi del neoliberismo come modello economico, bensì come progetto di società che ha come condizione preliminare la «formazione» di un «uomo nuovo», l’individuo proprietario. È questo il punto di partenza dell’intervista condotta in vari appuntamenti con i due autori, ma che si è poi concretizzata nelle risposte inviate da Christina Laval durante le ultime correzioni al nuovo libro scritto con Pierre Dardot dedicato al «comune».
«La nuova ragione del mondo» è un affasciante affresco del neoliberismo. Molti economisti e politologi avevano sostenuto che con la crisi economica, il neoliberismo avrebbe lasciato il passo a politiche keynesiane. A sei anni dalla crisi, il neoliberismo continua a costituire il modello sociale, politico e economico dominante. Quali, secondo lei, le ragioni di una tale capacità di sopravvivere alla crisi?
La frase, che apriva la prima edizione francese del nostro libro, nel 2009, era «il neoliberismo non è morto». Era un modo di rispondere a tutti quelli che, in seguito al fallimento di Lehman Brothers, si erano subito precipitati a suonare il requiem della «fine del neoliberismo» (come recitava il titolo di un famoso articolo di Joseph Stiglitz dell’epoca). Oggi ce lo siamo già dimenticati, ma all’epoca molti economisti e uomini politici leggevano la crisi come l’atto di morte di una «ideologia», quella neoliberista, appunto, che aveva condotto a numerosi «eccessi» e «abusi». Invece, le nostre analisi sulla storia e sulla natura profonda del neoliberismo ci dimostravano che questa crisi non rappresentava affatto «la fine del neoliberismo», ma una sorta di malattia grave che, da sola, non fermava lo sviluppo di ciò che abbiamo definito «la nuova ragione del mondo».
Le analisi «alla Stiglitz» preannunciavano il ritorno a Keynes e all’intervento statale. E lo Stato, effettivamente, è intervenuto molto dopo il 2009, perfino massicciamente, in alcuni casi, ma questo intervento non è andato nel senso auspicato da Stiglitz. Lo Stato, infatti, è intervenuto per salvare la finanza erodendo i meccanismi di protezione sociale, la sanità, la scuola e il diritto al lavoro. La metamorfosi della crisi del debito privato in crisi del debito pubblico, in Europa, ha dato vita a una radicalizzazione del neoliberismo, che ha funzionato come un circolo vizioso in cui gli effetti negativi della concorrenza, della finanziarizzazione e delle diseguaglianze vanno sistematicamente a rinforzare le stesse cause che le hanno prodotti. Lo vediamo bene adesso che l’Unione Europea, con il discorso delle «riforme strutturali» e le politiche di austerità, cerca di accelerare una trasformazione neoliberista della società.
Nel volume vi soffermate molto sul concetto di «governance», illustrando il passaggio, e le mutazioni, che il concetto ha avuto passando dall’impresa allo stato. È come se la politica abbia mutuato dall’economia la gestione dello Stato. Siamo al vecchio adagio marxiano sullo Stato garante del regime di accumulazione capitalista, oppure assistiamo a una trasformazione radicale del «politico»?
Non è una novità che lo Stato si faccia garante dell’accumulazione capitalistica. Però è importante capire che questa funzione non è svolta sempre allo stesso modo. Finora, infatti, il ruolo di «garante» implicava che lo Stato affermasse la sua posizione esteriore e mostrasse preoccupazione per l’interesse generale a scapito degli interessi capitalistici particolari. La novità di questi ultimi tempi, invece, è che lo Stato diventa un calco dell’impresa e fa dell’impresa il suo modello ideale. Questa è una delle grandi innovazioni del neoliberismo rispetto al liberismo classico.
Contrariamente a quello che si crede spesso, il neoliberismo non rappresenta alcun ritorno al presunto mercato «naturale». Nei fatti, oltre che nelle giustificazioni, è possibile individuare un progetto costruttivista che presuppone un’intervento attivo dello Stato per trasformare la società e l’economia. Ma questo interventismo si rivolge anche contro se stesso: lo Stato cambia forma e funzione mano a mano che si sviluppano le politiche neoliberali. Le cosiddette «riforme del welfare», per esempio, sono politiche pubbliche con l’obiettivo di produrre una sorta autotrasformazione dello Stato, che incorpora discorsi e pratiche, modalità di valutazione e di gestione provenienti dal settore privato. Questo «Stato imprenditoriale» o «manageriale» tende a modificare le barriere esistenti tra settore pubblico e privato, nonché tra diritto pubblico e privato. Volendola spiegare, questa autotrasformazione, basterebbe riconsiderare il ruolo affidato delle politiche neoliberali. Precorrendo i tempi, Margaret Thatcher diceva che bisognava cambiare «l’anima e il cuore» della gente. E cambiare il cuore implica trasformare le condizioni e le situazioni nelle quali le persone vivono, metterle fintanto che è possibile in condizione di concorrenza, rinchiuderle in schemi di ragionamento fissi fondati sulla logica dell’homo oeconomicus . In una parola, lo Stato non deve più soltanto «rispettare» il mercato come ai bei tempi del liberismo classico, ma ora deve adoperarsi per costruire ovunque situazioni in cui gli individui sono obbligati a introiettare una logica di concorrenza o di profitto. In altri termini: l’accumulazione capitalistica, la concorrenza, il profitto non sono soltanto obiettivi e criteri economici, ma tendono a diventare norme sociali che trascendono gli stretti ambiti dell’economia.
Nel libro sostenete che il processo di costruzione dell’Europa è stato segnato da una visione neoliberista. Ora quel processo segna un passaggio decisivo. Nelle prossime elezioni, infatti, la crescita di movimenti populisti (sia di destra che di sinistra) potrebbe determinare un cambiamento profondo nella composizione del parlamento europeo, al punto che sono in molti che paventano la possibilità di una maggioranza relativa degli euroscettici. Questo vuol dire che non è possibile immaginare un’Europa al di fuori del regime di accumulazione neoliberista?
Il nostro lavoro intende mostrare su quali basi è stata costruita l’Europa. È molto importante ricordare il ruolo giocato dall’«ordoliberalismo» nella costruzione europea. Questa dottrina di origine tedesca ha riscosso molto successo nelle élites europee a partire dagli anni Cinquanta e oggi mostra la corda. Al di là dei vaghi richiami alla pace europea, all’indomani della Seconda Guerra Mondiale, è stata questa dottrina a costituire il vero fondamento dell’Europa, che ha scientemente costruito un «mercato concorrenziale» con strumenti giuridici e istituzioni politiche e monetarie concepite a questo scopo. Sullo zoccolo duro di questa forma di mercato si sarebbe costruito un ordine politico e un impianto costituzionale interamente votati a preservare la logica della concorrenza. Certo, la crisi europea ha cause più globali, ma è anche la conseguenza della messa in opera di questa concorrenza interna e dei dogmi della stabilità monetaria. Si sente spesso dire che l’euro è stato un’errore teorico che ora stiamo pagando ora molto caro. Per noi, la questione fondamentale si colloca più a monte rispetto a questa questione: l’aver voluto costruire l’Europa su un modello di mercato, senza concepire la politica altrimenti che come amministrazione del mercato e della moneta, concependo il popolo europeo soltanto come un insieme di consumatori, tutto questo ha significato scavalcare le frustrazioni di milioni di persone L’exploit delle prospettive sovrainiste e localiste, del nazionalismo e della xenofobia diventa sempre più probabile, purtroppo, con l’aggravarsi della crisi sociale. La scomparsa dello spirito di solidarietà internazionalista a sinistra è molto inquietante. La reinvenzione di una sinistra nel vero senso del termine in Europa dovrà passare per una rifondazione del progetto europeo su nuove basi.
All’altra estremità del potere neoliberista, c’è il «soggetto». Questo è il senso della frase della Thatcher che citavamo prima. In una società che obbedisce a una logica di mercato, l’individuo si adatta, si trasforma, diventa un altro soggetto. Deve funzionare come un’impresa, deve diventare «imprenditore di se stesso». Assistiamo così alla diffusione, negli ambiti più disparati, di norme di condotta e di forme di esistenza strettamente in connessione tra loro. Il malato mentale deve «gestire» la propria salute, così come il delinquente deve imparare a «gestire» il suo rapporto con le leggi, o le sue «vicende giudiziarie», esattamente come lo studente deve «gestire» il suo percorso di orientamento universitario per «ottimizzare» l’investimento rappresentato dai suoi studi superiori. Ma stiamo attenti, perché questo non è un modello o una norma imposti dall’alto da uno Stato totalitario. Certo, è vero che si assiste un po’ ovunque nel mondo che i politici obbediscono sempre di più a questa norma di condotta imprenditoriale, uscendo in questo senso dal solco della democrazia liberale, ma non sono i politici a imporre il modello ai cittadini. I politici, anzi, partecipano come gli altri al sistema delle norme sociali che amministrano il rapporto con gli individui con se stessi e con gli altri. È forse questo il lato più affascinante, ma anche più inquietante, del neoliberismo: il modo in cui la soggettività venga rimodellata dall’interno e sia portata ad allinearsi con la razionalità capitalistica. È questo, d’altronde, il senso del concetto di «capitale umano», a cui si attinge oggi a piene mani per giustificare le politiche pubbliche negli ambiti più diversi.
Insistete molto su come il rischio sia un aspetto rilevante della fabbrica del soggetto neoliberista. Mi sembra che anche il debito, meglio la sua gestione, abbia assunto un ruolo determinante. Non è così?
Il debito come modalità di governo degli individui è al centro di alcuni recenti lavori sul neoliberismo, come quelli di Maurizio Lazzarato o di David Graeber. Per noi, questo è un aspetto senz’altro importante del neoliberismo, ma non è che una parte di quel fenomeno più generale che è rappresentato, appunto, dalla trasformazione degli individui in soggetti statistici, in soggetti «contabilizzabili». La dipendenza dal meccanismo del credito è solo un aspetto di un’azione più generale operata sulle soggettività. Si tratta di modellare gli individui dipendenti da norme contabili e finanziarie, collocandoli di volta in volta in situazioni in cui si sentono obbligati a calcolare il rendimento economico delle loro scelte. Il miglior esempio di tutto questo sono gli studenti che, un po’ ovunque del mondo, si trovano ad affrontare l’aumento delle tasse di iscrizione all’università dovendo dunque porsi il problema di calcolare il ritorno dell’investimento finanziario rappresentato dai loro studi.
Questa contabilizzazione ha l’obiettivo di governare gli individui in modo tale da renderli più efficienti, più performanti, attraverso la loro «responsabilizzazione contabile». È un modo di rinforzare l’autosorveglianza di ogni uomo o donna, obbligati a superare costantemente i propri risultati per non subire le sanzioni legate alla mancanza di efficienza e per beneficiare delle ricompense date alla performance ottimale.
Le conclusioni del vostro libro parlano della fine della democrazia liberale. Qual è allora la forma di governo nel neoliberismo?
La democrazia liberale era fondata su una separazione netta tra sfera pubblica e sfera privata, garantita da solide barriere giuridiche e istituzionali tra il mondo politico e l’universo economico. È vero che questa separazione era una finzione, che i marxisti avevano subito individuato e denunciato. E tuttavia tale finzione aveva comunque un effetto reale, quello di evitare che la politica si riducesse a una mera difesa degli interessi dominanti. Anzi, il «gioco» politico che si veniva a creare in questo modo ha anche permesso, storicamente, di contenere gli interessi privati entro limiti ben definiti, sottomettendoli all’interesse generale. Con il neoliberismo, invece, la sfera politica si modella interamente sulla realtà economica, e non soltanto difende gli interessi delle classi dominanti e delle grandi imprese, ma trasforma la società intera in uno spazio integralmente sottomesso all’imperio della razionalità capitalistica. Oggi la politica appare sempre più uniformata alla logica della concorrenza. La «competitività» diventa il principio politico supremo, mentre principi come la «cittadinanza» e la «solidarietà» spariscono sempre di più dalla scena. Lo sfacelo intellettuale della sinistra storica e parlamentare è uno dei sintomi principali di questo processo di riduzione della politica alla logica economica. Per continuare a dare l’idea di una presenza, la sinistra ha preferito schiacciarsi completamente sul modello imprenditoriale. L’imprenditore ha preso ormai il posto della classe operaia, la «performance» quello della «giustizia sociale». Volendo modernizzarsi, la sinistra non ha fatto altro, in realtà, che suicidarsi, ogni giorno un po’ di più. Per questa ragione non si può dire che esista una forma di governo specifica del neoliberismo, e neanche un regime politico che gli sia proprio, perché esso può sfruttare a piacimento qualunque forma politica: lo stile manageriale può andare a braccetto anche con un regime politico autoritario. L’elemento essenziale, dunque, è proprio questo processo di svuotamento della democrazia politica, che legittima a parlare di una nuova ragione politica ademocratica.
Ha collaborato Riccardo Antoniucci
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