Nei Centri di identificazione ed espulsione (Cie) ormai sembra che lo stato italiano calpesti il diritto e i diritti umani per il solo piacere di farlo, senza utilità alcuna, solo per manifesta ignoranza. Eppure questa oscenità — privare della libertà persone che non hanno commesso reati — non smuove alcun movimento in grado di imbastire iniziative degne di nota.
Sono passati sedici anni da quando sono stati inaugurati i Cpt (oggi Cie) dall’allora ministro degli Interni Giorgio Napolitano. Dopo tutto questo tempo anche il capo dello Stato si è sentito almeno in dovere di scrivere una lettera per invitare il governo ad “un’attenta riflessione sui tempi di permanenza nei Cie”; anche se la violazione di un diritto umano non dovrebbe essere più o meno accettata in relazione al tempo di sofferenza procurata (i due mesi di prigionia invece che diciotto auspicati dal centrosinistra non sono certo una soluzione dignitosa). Il presidente lo ha suggerito di fronte al fallimento dell’esperimento concentrazionario, solo perché alcuni prigionieri si sono cuciti la bocca e perché anche i numeri parlano di strutture “inutili e afflittive”, come scrive l’associazione Medici per i Diritti Umani in relazione ai dati sui Cie del 2013.
Nel 2013 le persone trattenute nei Cie italiani ancora operativi sono state 6.016 (5.431 uomini, 585 donne). Meno della metà sono state espulse (2.749 persone), con un tasso di efficacia inferiore del 5% rispetto all’anno precedente: 50,5% nel 2012 contro il 45,7% dell’anno scorso. Per dare l’idea del numero ridicolo di rimpatri rispetto alla popolazione immigrata cosiddetta “clandestina”, basti citare il dato Ismu 2013 secondo cui in Italia ci sarebbero 294 mila stranieri senza permesso di soggiorno. Significa che queste prigioni funzionano per rimpatriare lo 0,9% del totale degli immigrati che vive in condizioni di irregolarità. Dunque, “l’abnorme prolungamento dei tempi massimi di detenzione amministrativa” — spiegano gli operatori di Medu — non serve a nulla se non ad “esacerbare gli elementi di violenza e disumanizzazione di queste strutture”. E’ la storia di sedici anni di violenze e soprusi, è la cronaca delle numerose rivolte disperate che si sono susseguite nel corso del 2013. Il sistema del resto è imploso su se stesso: otto Cie sono stati chiusi temporaneamente per danneggiamenti e per problemi di mala gestione, mentre i cinque che ancora funzionano operano con una capienza limitata (Torino, Roma, Bari, Trapani Milo e Caltanisetta). Se questa è la realtà, i medici che hanno visitato tutte le strutture chiedono la chiusura di tutti i Cie.
Tra quelli in via di ristrutturazione dopo due rivolte c’è via Corelli, a Milano. La prefettura continua a rinviarne l’apertura (il “restyling”), ma al di là dei problemi di muratura i funzionari non riescono nemmeno a riassegnare la gestione dopo che la Croce Rossa si è defilata perché non disposta a lavorare con un budget di appena 40 euro giornalieri a “ospite”. Dopo aver scartato una cooperativa ritenuta poco affidabile, la prefettura sta vagliando la candidatura dei francesi di Gepsa, che hanno già gestito il Cara romano di Castelnuovo di Porto. Anche se il Comune di Milano, in particolare con l’assessore Pierfrancesco Majorino (Pd), ha chiesto al governo di chiudere Corelli. Il ministro Alfano ha risposto picche, ma Majorino potrebbe anche trovare la forza per farsi ascoltare dai suoi colleghi di partito che si stanno sbranando per Palazzo Chigi. Magari anche solo per trarne le solite conseguenze.