“Clandestino non è reato”. Ma per una volta sola.
Pubblicato il 22 gen 2014
di Stefano Galieni
La permanenza “irregolare” in Italia per i cittadini migranti, volgarmente detta clandestinità, non è più da ieri per il Senato un reato penale. Una decisione non ancora effettiva (dovrà passare al vaglio della Camera), dal forte valore simbolico quanto dallo scarso impatto sulle condizioni concrete di vita. Quando il ministro Maroni mediante la legge 94 (2 luglio 2009) nel quadro del pacchetto sicurezza, fece introdurre tale reato nel codice penale, non solo dalla parte della Lega Nord si disse che finalmente si era trovato lo strumento per rendere le città più sicure. Una legge propaganda che rapidamente si mostrò fallimentare: espunta per ragioni di incostituzionalità la possibilità di detenere in carcere i “clandestini”, il governo di allora si dovette accontentare di disporre una sanzione pecuniara dai 5000 ai 10000 euro per chi permaneva in tale condizione. Nel pacchetto in questione si era proposto anche di disporre l’aumento di un terzo della pena nei casi di reati commessi da persone irregolarmente presenti sul territorio nazionale. Nel luglio 2010 tale disposizione venne bocciata per manifesta incostituzionalità. Da allora l’introduzione della sanzione penale è servita unicamente ad intasare i tribunali di procedimenti fondamentalmente inutili. Il solo risultato che si otteneva è che il condannato, ad una sanzione penale, automaticamente perdeva qualsiasi possibilità di regolarizzare la propria presenza in Italia, non in nome di un reato compiuto ma di una condizione attinente all’essere stesso della persona. Una ragione per cui dall’Europa sono giunti moniti non solo formali. I processi che sono stati istruiti da allora solo in pochi casi hanno poi portato alla commutazione definitiva della sanzione, in gran parte dei casi sono ancora in piedi senza ragione alcuna di allarme sociale. E suona grottesco se non portasse spesso a conseguenze tragiche che in un Paese dove sono fermi circa 9 milioni di procedimenti penali si debbano aggiungere, va ribadito, inutilmente, ulteriori reati da punire. Ma pesava e pesa ancora, il valore simbolico del reato. La possibilità di tenere in una condizione giuridica ancora più subalterna i cittadini di paesi terzi, soprattutto in un contesto in cui mille sono le ragioni per cui si può perdere il diritto a restare in Italia, dalla perdita del lavoro, a piccoli reati, al non avere l’idoneità alloggiativa nella casa in cui si risiede. Un insieme di norme, spesso in contraddizione fra loro, fa tra l’altro si che viga fra procura e procura un ampio margine di discrezionalità nell’applicazione delle stesse, si va da scelte drasticamente restrittive tali ad esempio da non concedere la regolarizzazione a chi si sottrae allo sfruttamento sessuale e denuncia gli aguzzini a chi invece opera una scelta, anche semplicemente realistica, basandosi sui criteri di sicurezza sociale. La discrezionalità trasforma inevitabilmente diritti in privilegi. L’abolizione del reato penale votata ieri a stragrande maggioranza in Senato e da molti applaudita (solo la Lega, alla ricerca disperata di consenso ha inscenato la solita pantomima), riporta la situazione a come configurata dalla Bossi – Fini, altro testo che brilla per inefficacia. Con un inasprimento non rimosso. In caso di recidività, ovvero se a seguito di una espulsione la persona irregolare viene ritrovata sul territorio nazionale, torna a scattare la sanzione penale. In pratica si salvano coloro che per la prima volta incappano nel decreto di espulsione non rispettato. Tornare alla Bossi Fini significa che il cittadino identificato come irregolarmente presente subisce, al primo colpo unicamente, si fa per dire, una sanzione amministrativa. Stanti questi limiti, che denunciano come permanga una lentezza immotivabile nel modificare l’impianto legislativo sull’immigrazione, tanto antiquato e inadatto al presente, quanto inutilmente cattivo, razzista e volutamente inefficace, il risultato c’è ed è senza dubbio positivo. Si tratta di un primo segnale che la politica che si rappresenta nelle istituzioni, torna a dare in materia. Ma va detto che è un segnale insufficiente che dimostra una forte lontananza dalle questioni reali. Se alcune forze xenofobe stanno infatti rialzando la testa, non più in nome della sicurezza ma utilizzando la crisi come pretesto per attaccare gli immigrati e sperare di raggranellare consenso. E se tornano a farsi sentire le voci suadenti della borghesia conservatrice come Angelo Panebianco, che dalle pagine del Corriere della Sera riaffermava la scorsa settimana, partendo da una disponibilità a rivedere le leggi vigenti, invitava a programmare una selezione dei migranti in ingresso basata non solo sulle capacità lavorative ma sulle culture di provenienza. Quelli che ci convengono insomma, però “bianchi e cristiani”. Se riemergono queste spinte che riaffermano il valore della guerra fra poveri personalizzando anche gli attacchi contro figure simboliche contro la ministra Kyenge, è vero anche che si stanno muovendo componenti diverse di società. Componenti di società meticcia e conflittuale, capaci di manifestare insieme per il diritto all’abitare, di ragionare in maniera alternativa di frontiere come si farà dal 31 gennaio al 2 febbraio prossimi a Lampedusa, (www.cartadilampedusa.org) che ragionano su una idea diversa di Italia e di Europa. Forze grandi e piccole che stanno definendo punti di convergenza per irrompere sulla scena politica con richieste di cambiamento. Si aprono insomma scenari interessanti.
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