Le privatizzazioni senza memoria

Le privatizzazioni senza memoria

di Corrado Oddi – il manifesto

Vale la pena provare a costruire una riflessione con un pensiero lungo sulle vicende che, anche a partire dalla giusta lotta dei tramvieri di Genova dei giorni scorsi, vanno sotto il titolo delle privatizzazioni delle aziende e dei servizi pubblici. In un Paese in cui le classi dirigenti hanno la memoria corta, non è esercizio privo di significato ripercorrere i risultati di quella che è stata la stagione delle grandi privatizzazioni, iniziata nel 1993 e terminata nel 2001. In quel decennio si è compiuta un’operazione gigantesca di sostanziale smantellamento del sistema di economia mista che contrassegnava il nostro Paese, dismettendo la presenza pubblica dapprima nelle banche e poi nell’industria con la liquidazione dell’Iri e la parziale privatizzazione dell’Eni. Si è trattato, secondo le elaborazioni del Centro studi di Confindustria, di un processo di cessioni al mercato di quote di aziende pubbliche pari a circa 120 miliardi di euro, l’11,9% del Pil, che ha prodotto – classico esempio di montagna che partorisce il topolino – una riduzione di spesa per interessi sul debito pubblico di circa 10 miliardi.

Quella nota non si avventura nella stima di quanto si è realizzato in termini di abbattimento dello stock di debito pubblico, mentre lo fa un altro studio importante della Corte dei Conti del 2010, che traccia un quadro completo delle privatizzazioni dal 1992 al 2008. Lì si accredita un dato di fonte non propriamente disinteressata, proveniente dal ministero del Tesoro che ha condotto in prima persona tutte le operazioni di dismissioni, secondo il quale l’apporto delle privatizzazioni effettuate avrebbe ridotto di circa 10 punti percentuali il rapporto debito/Pil, che nel 2001 si attestava a circa il 108%, rispetto a circa il 118% che si sarebbe raggiunto senza le privatizzazioni. Peccato che la stessa Corte dei Conti lamenti la scarsa trasparenza e la parziale indisponibilità dei dati forniti dal Comitato per le privatizzazioni, presieduto dal Direttore generale del Tesoro, e, ancor più, ci si dimentichi del fatto che, visto che l’andamento complessivo del debito è il risultato di scelte complesse su cui incidono più variabili, il rapporto debito/Pil dal 1992 al 2001 è passato dal 105% al 108%. Peraltro, la stessa Corte mette in evidenza gli aspetti collaterali del processo di privatizzazione, segnalando una dinamica dei prezzi molto accentuata nei settori, in particolare, dell’acqua, del gas e delle autostrade. A questi è utile aggiungere il calo dell’occupazione, il peggioramento dei diritti e delle condizioni contrattuali dei lavoratori e la rinuncia a svolgere un ruolo attivo nelle politiche industriali del Paese in settori strategici, di cui le ultime vicende relative all’Ilva, a Telecom e all’Alitalia non sono che l’inevitabile epilogo.

Sfugge, da parte di chi ha promosso e ripropone oggi le privatizzazioni, che affidarsi al mercato in fondamentali settori strategici e nei servizi pubblici significa accentuare una redistribuzione del reddito a discapito dei settori più deboli della società e indebolire i legami e la coesione sociale, tant’è che oggi l’idea strategica delle privatizzazioni è minoritaria nel Paese.

Lo confermano in qualche modo gli stessi soggetti che non usano più il termine privatizzazioni ma, imperterriti, sono intenzionati ad andare avanti lungo questa strada. Basta sentire il sindaco Doria che, sfiorando il senso del ridicolo, afferma che non c’era alcuna volontà di privatizzare i servizi pubblici a Genova e che l’accordo sindacale raggiunto dopo cinque giorni di sciopero lo si poteva fare attraverso una discussione tranquilla. È vero che nella delibera messa in discussione a Genova non compariva mai la parola privatizzazione, ma più pudicamente il testo in premessa dichiarava di andare verso «la ristrutturazione delle modalità di affidamento dei servizi che, nel rispetto della normativa comunitaria, comporteranno la necessità di diverse aziende in house di liberarsi dai vincoli di questo assetto». Allo stesso modo il sottosegretario alle Infrastrutture De Angelis annuncia un piano in 7 mosse per rilanciare il trasporto pubblico locale. Anche lui, pudicamente, si tiene il meglio alla settima mossa: «La regola aurea che può risolvere l’anomalia italiana per cui lo stesso soggetto (il Comune in genere) è insieme regolatore (decide tariffe e controlla) e proprietario delle aziende». Ecco predisposto il prossimo piano di privatizzazione, senza mai nominarlo!

Il Presidente del Consiglio Letta, invece, sembra meno incline alle ipocrisie e dice esplicitamente, per tacitare la Commissione europea, che è intenzionato a mettere sul mercato quote societarie di Eni, Stm, Enav, Sace, Fincantieri, Grandi Stazioni, Tag e delle reti di gas e elettricità possedute da Cassa Depositi e Prestiti. Anche a prescindere dall’errore strategico di collocare sul mercato parti delle reti del gas e dell’elettricità (ma non erano quelle che devono comunque rimanere pubbliche e, semmai, era la gestione del servizio che poteva essere liberalizzata?), parliamo, in tempi medio-lunghi, di un incasso pari a complessivi 10-12 miliardi, di cui al massimo la metà andrà a riduzione del debito pubblico. Basta fare un confronto con il periodo delle “grandi privatizzazioni” o ragionare su cosa vuol dire 5-6 miliardi di risparmi su un debito complessivo di più di 2000 miliardi, cresciuto, dal 2011 al 2013, dal 120% al 133% rispetto al Pil, e cioè, in valori assoluti, di più di 170 miliardi, per realizzare che siamo in presenza di una colossale operazione propagandistica.

Ovviamente non è di grande soddisfazione il fatto che la nuova fase di privatizzazioni non ha grande respiro. Intanto, perché essa può comunque produrre grandi guasti nelle condizioni di vita delle persone e in un tessuto sociale del Paese già molto stremato e frantumato. In più, perché rimane e, anzi, si aggrava sempre più lo stato di crisi economica, sociale e anche istituzionale in cui siamo immersi e che non solo il governo Letta, ma neanche il tardoblairismo di Renzi saranno in grado di affrontare. Di fronte a tale realtà, non si può più non vedere che occorre ricostruire un orizzonte generale che dia loro senso e li connetta. A scanso di equivoci, dico subito che il tema non è quello di dar vita a un ennesimo soggetto politico, quanto di mettere in campo un’iniziativa nazionale e nei territori su cui far convergere le tante forze e soggettività, nel mondo associativo, sindacale, dei movimenti che in questi anni si sono battute per la difesa dei beni comuni, per la democrazia e contro le privatizzazioni e per affermare un’idea di valore e dignità del lavoro, e che oggi hanno necessità di trovare una trama possibile di unificazione. Lo si può fare, non discutendo in termini astratti di nuovo modello produttivo e sociale e di alternativa alle politiche neoliberiste, ma facendo vivere quest’impostazione in un’azione concreta, costruita attorno ai temi della democrazia e di un nuovo investimento in termini di risorse e finanze pubbliche, come perni che parlano a chi ha condotto la battaglia referendaria per l’acqua bene comune, a chi ha lavorato per la libertà e la democrazia sindacale, a chi si sta mobilitando contro le ipotesi neopresidenzialiste e le controriforme costituzionali, alle tante realtà impegnate nei territori per difendere la salute, l’ambiente, la qualità del vivere urbano. Sarebbe interessante ragionarne in modo largo.


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