La paura del conflitto

La paura del conflitto

di Marco Revelli – il manifesto – Dunque «la rivoluzione può attendere»? E i rivoluzionari fuori tempo che si aspettavano che Genova diventasse l’«avamposto di una grande controffensiva operaia» (?) devono cercarsi «altrove la propria avanguardia». Per favore!
Certo colpisce lo sproporzionato sospiro di sollievo con cui pressoché tutti i mezzi d’informazione e tutta la politica governativa hanno salutato l’accordo di domenica, pari evidentemente al timore che quel conflitto sociale, nel cuore del Nord in sofferenza, aveva sollevato.

E al bisogno, inespresso ma ossessivo, di delimitare e spegnere ogni focolaio di protesta perché l’equilibrio è evidentemente fragilissimo. La coperta strettissima. E i margini di legittimazione di questo establishment logoratissimi.
Il fatto è che quell’accordo non chiude affatto il problema, nel migliore dei casi lo rinvia (come ormai tutto si rinvia in questo paese). Mette una pezza su un problema grande come una casa, che si ripropone, maligno, in ogni grande città. In ogni parte del territorio. Che fa di ogni luogo un piccolo prisma in cui si riflette una totalità sull’orlo del collasso, che richiederebbe soluzioni drastiche, risposte credibili. Le quali portano tutte in un unico fulcro, macroscopico quanto taciuto: l’insostenibilità del dogma e paradigma che chiude il nostro orizzonte sociale, economico e politico in una camicia di forza. L’impossibilità di far fronte al moltiplicarsi dei deficit – e alle minacce di default – di buona parte delle nostre amministrazioni, con la drammatica ricaduta a cascata sui territori, sulla sostenibilità del reticolo di servizi, diritti, garanzie, sostegni alle persone e alle famiglie, che costituiscono il residuo patrimonio di «beni comuni», se si sarà costretti a rimanere dentro quella camicia di forza. Se si dovrà assumere, come seconda coscienza, il dogma mortale e prevalente che domina in Europa, ed è condiviso dalle élite economiche e finanziarie di (quasi) tutto il mondo: quelle, tanto per intenderci, di cui parla Il colpo di stato delle banche e dei governi, che non è uno slogan dei centri sociali, è il libro del più stimato sociologo del nostro paese, Luciano Gallino.
Né serve ironizzare sulle «forze oscure annidate nel governo Letta, nel Pd, tra gli speculatori d’Oriente e nelle solite cancellerie» per esorcizzare il problema. Basta considerare quelle decine di miliardi di euro da versare ogni anno come quote obbligate così come impone il fiscal compact, a cui si deve aggiungere l’ottantina di miliardi da restituire ogni anno come interessi sul nostro gigantesco debito (accumulato non oggi, quando facciamo registrare un significativo avanzo primario, ma negli anni del Caf), per capire che così non ce la possiamo fare. Che continueremo a erodere lavoro, servizi, diritti, tessuto produttivo, futuro… Nonché credibilità delle rappresentanze, soprattutto locali, soprattutto in quella prima linea contigua ai territori che sono le amministrazioni comunali.
Nessuno chiedeva ai trasportatori di Genova di battersi a mani nude contro un simile Moloch. Così come nessuno chiede ai sindaci di fare i Masaniello fuori tempo. L’ironia, in situazioni tragiche, non porta da nessuna parte. Ma di farsi tramite di una risposta «dal basso», che non umilii ma al contrario valorizzi la partecipazione, che non esorcizzi ma dia voce e forma alla rabbia dei cittadini, che contribuisca a elaborare quella «grammatica dell’indignazione» che abbiamo più volte invocato, anziché recitare ogni giorno il breviario dell’obbedienza come tanti don Abbondio… questo sì. Certo, l’implosione dei partiti politici che fino a ieri strutturavano la comunicazione tra società e istituzioni – non la loro scomparsa, ma la trasformazione in conglomerati di strategie personali in conflitto tra loro -, li ha lasciati soli di fronte alla cittadinanza che hanno la responsabilità di rappresentare. Mancano le forme organizzative per dare loro un ruolo che non sia di pura cinghia di trasmissione di decisioni prese in alto e al centro. Manca soprattutto la forza per farsi portatori di un’alternativa (che non è la «spesa facile» ma la riscrittura dei bilanci con altre logiche, per esempio spostando ai territori i sei miliardi stanziati per la marina militare).
Tutto, senza dubbio, è difficile. Ma mai come ora hic rhodus, hic salta. Se non si troverà il modo di accumulare la forza sociale e politica per rompere quel dogma e rovesciare quel paradigma, le incursioni «grilline» sulle piazze degli spaesati e degli arrabbiati si moltiplicheranno senz’argine. E questo compito chiede a ognuno di loro di «mediarsi» in un ruolo politico di alternativa. E ad ognuno di noi di lavorare, perché la soggettività rabbiosa che serpeggia nel sociale, trovi finalmente una propria «grammatica» in grado di farla diventare discorso condiviso.


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