L’ideologia del paese normale e l’impossibile svolta del Pd
Pubblicato il 23 lug 2013
di Paolo Favilli – il manifesto -
Mentalità e corpo del partito lontani dalla rappresentanza sociale del mondo del lavoro, vera discontinuità progettuale per la sinistra Le “cose” nate dal 1991 e la struttura di politici di professione: sono questi i termini che rendono difficile la svolta congressuale
Nelle ultime settimane, nell’ambito di un intelligente forum del Corriere della Sera, mi hanno colpito queste righe pubblicate in un post: «Ci sentiamo soli anche quando siamo in molti a condividere il destino, … Siamo indifferenti (…) non ce ne importa più niente delle loro manovre e manovrine, ci hanno spento ogni passione insieme alle speranze ….Maledetti loro, maledetti noi che non abbiamo più un briciolo di forza per reagire, subiamo, abbozziamo, imprechiamo un po’ e via andare (…). Non siamo più capaci di fare massa, abbiamo visto tutto quello che c’era da vedere e abbiamo capito che c’è poco o niente da fare. (…)». Sempre sullo stesso giornale, ma in un altro forum, uno dei partecipanti alla discussione dice di sentirsi in uno stato di «disperazione che diventa resa».
Il nesso tra la prevalenza ideologica e pratica del non ci sono alternative allo stato di cose presente e la «disperazione che diventa resa» è del tutto evidente. Quale è stato, quale è, il contributo del Pd alla trasformazione di questa ideologia in senso comune?
Alfredo Reichlin in un recente intervento ha fatto riferimento ad «un grande bagaglio di valori, di bisogni, e di passioni che ancora esiste» e che dovrebbe trovare, proprio nel suo partito, risposte adeguate (l’Unità, 9 luglio). In verità Reichlin non sembra molto ottimista sul fatto che il Pd sia in grado di elaborare una riflessione politica al livello delle domande poste dalla disperazione sociale. Egli sottolinea la «pochezza del (…) dibattito congressuale», pochezza che attiene alla mancanza di «autonomia culturale» del partito, che indica in questi termini: convinzione prevalente «che il mondo non presenta scelte diverse». Nonostante il profondo ed assai ragionevole pessimismo, egli spera in una «vera svolta» al congresso» del Pd, perché è di una vera svolta che c’è «bisogno». Purtroppo nella storia non c’è alcun rapporto determinato tra bisogni e svolte nella direzione indicata da quei bisogni. In particolare nella storia dei subalterni, di coloro la cui disperazione tante volte si è conclusa in una resa.
Una «svolta» in cui, con diverse gradazioni nell’oscillazione tra ottimismo e pessimismo, confidano anche molti degli intervenuti su questo giornale a proposito del dibattito precongressuale del Pd. «Svolta» legata a quello che Asor Rosa ha chiamato «l’anello mancante», cioè il «progetto». Il progetto, appunto, non una generica carta d’intenti, bensì un insieme strutturato capace di coniugare una visione strategica centrata su «l’organizzazione democratica e partecipativa, la difesa degli interessi e del sociale, la rappresentanza del lavoro» e tutti i passaggi intermedi necessari e congruenti omogenei con la strategia. Un progetto che il Pd non ha, dice ancora Asor Rosa, ma che, forse, a seconda degli sforzi e della convinzione di alcune delle forze in quel campo, potrebbe configurarsi come l’esito del congresso. L’alternativa è un Pd «perduto» e «se il Pd è perduto, dovremo lavorare, qualcun altro dovrà lavorare per decenni perché un nuovo processo abbia inizio» (il manifesto 18 giugno).
Sono questioni di grandi rilevanza, di fronte alle quali, però, ci si deve porre qualche interrogativo. Perché quel progetto, finora, è stato del tutto assente dalla elaborazione e dalla pratica politica del Pd? Il Pd ha una storia alle spalle e non solo quella a partire dall’ottobre 2007. La linea della «normalizzazione», che è vero progetto, non è stata soltanto quella che ha interessato i «mesi passati», bensì quella che ha caratterizzato «cose» e Pd nei molti anni passati, a partire dal 1991. L’insistita ricerca del «paese normale» ha rappresentato il filo della continuità capace di dare ragione a scelte politiche supposte contingenti. Senza questo preciso orizzonte culturale e politico non si spiegano i due ultimi governi «costituenti». E quello attuale che, come dice giustamente Asor Rosa, «si delinea come il governo più importante e più decisivo per le nostre sorti dal 1946 ad oggi».
La normalità, secondo il «Grande dizionario della lingua italiana», è «una condizione abituale, consueta e ampiamente accettata e che non presenta alcuna irregolarità, né lascia presagire alcun elemento di imprevisto e di inquietudine». L’«Enciclopedia Einaudi» precisa che nella normalità «non si pende né a destra né a sinistra». Noi «somos reformistas, no de izquierdas», così la carta d’identità del Pd come immediatamente presentata dal suo fondatore.
Che poi la realtà di quel partito sia stata e sia più mossa rispetto alla fotografia inaugurale che ne ha fatto Veltroni è altrettanto vero, ma si tratta di movimenti nell’ambito di una comune mentalità informata ai criteri della «normalità». Come c’insegna Braudel, la mentalità è una struttura, non si modifica sulla base delle scadenze congressuali.
D’altra parte come sarebbe stato possibile partecipare alla definizione degli obbiettivi economico sociali degli ultimi due governi, votare convintamente fiscal pact e costituzionalizzazione del pareggio di bilancio, senza una larga condivisione dei suddetti criteri di «normalità», che sono quelli della teoria economica mainstream?
Oltre le strutture culturali esistono poi altri elementi strutturali che rendono improbabili mutamenti radicali dei modi di essere di quel partito.
Quando si cercava di comprendere scelte politiche e gestione delle stesse anche attraverso l’analisi delle strutture organizzative atte a sostenerle, una importante rivista di riflessione politico-teorica in cui Asor Rosa (e Tronti) hanno avuto un ruolo di primo piano, pubblicava un’accurata ricerca sul ceto politico del Pci tra compromesso storico e svolta dei primi anni Ottanta («Laboratorio Politico», 2-3, 1982). La ricerca individuava con molta chiarezza le caratteristiche del quadro intermedio che aderisce al Pci nei primissimi anni Settanta e che alla metà del decennio approdava a ruoli dirigenti e professionali anche a livello nazionale. Un blocco di politici di professione sempre più caratterizzato da un’immissione precoce negli apparati e da una carriera tutta interna al partito. E, aggiunge l’autrice del saggio, la sociologa Chiara Sebastiani, «una componente fortemente individuale sembra prevalere sulla formale dedizione al partito; e una identificazione con il partito organizzazione assai più che con il partito classe».
«… tutto mi induceva a credere che il partito avesse subito una sconfitta dalla quale non si sarebbe rialzato. Avevo aderito a un corpo promesso alla vittoria e mi pareva impossibile associarmi a una sconfitta». In questa considerazione di uno dei protagonisti di un romanzo di Paul Nizan del 1938 ci sono motivi di riflessione per spiegare tante scelte fatte a ridosso del «meraviglioso ’89» da gran parte di quel tipo di «ceto politico». Il ceto politico intermedio-dirigente del Pd ha portato alle estreme conseguenze le logiche della progressione di carriera, disancorandola dalla rappresentanza sociale. Non conosco studi specifici a proposito, ma solo alcune esperienze che penso si avvicinino molto ad un ideal-tipo.
Un neodeputato e attuale membro della segreteria nazionale del Pd, ad esempio, si è iscritto al PdS alla metà degli anni Novanta in una importante realtà industriale. Era ancora studente e non aveva nessuna esperienza politica. Pochi mesi dopo era già segretario della federazione di quella zona industriale. Da allora la brillante carriera procede rapidamente: consigliere regionale, segretario regionale e via a crescere. Qualche mese fa dichiarava di essere dalemiano, ma di guardare anche «con attenzione e stima a Matteo» (Il Tirreno, 24 maggio). Chi è interessato a conoscere l’evoluzione attuale del nostro potrebbe avere indicazioni essenziali sui meccanismi che muovono davvero le strutture portanti del Pd.
Ora, elemento centrale dell’«anello mancante» dovrebbe essere, tra i molti indicati da Asor Rosa, tutti strettamente legati, quello della rappresentanza sociale del mondo del lavoro. Ma un partito che prenda sul serio una questione del genere deve avere tradizione di legami sociali e di riferimenti culturali di grande spessore. La questione rimanda, infatti, al nodo del rapporto tra la fase attuale della crisi della democrazia e l’attuale fase di accumulazione. Rimanda insomma ad un insieme di strumenti analitici e di comportamenti del tutto contraddittori con la struttura «mentalità» e con la struttura organizzativa del «corpo» del partito.
In un libro molto bello e recentissimo (Racconti dell’errore, Einaudi, 2013), un libro di letteratura creativa che insegna molto a chi fa il mestiere di studioso di storia, Asor Rosa delinea un atteggiamento che nella sostanza è il suo: Il Vecchio «ad onta della sua fama di sbandierato estremismo – presumeva di mettere d’accordo, con grande moderazione, o se preferite, con astuto spirito di compromesso, capra e cavoli». Atteggiamento assai lodevole, comune anche a chi scrive che, del resto, estremista non è mai stato. Credo, però, che in questo caso il salvataggio sia davvero impossibile.
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