Vendere il futuro dell’Italia?
Pubblicato il 21 lug 2013
di Nicola Melloni – liberazione.it -
L’idea di privatizzare l’Eni (e l’Enel, e Finmeccanica) non è nuova e non è certo prerogativa del ministro Saccomanni che ieri a Mosca – ma pensa un po’, proprio in casa Gazprom – ne ha accennato alla stampa, salvo poi ritrattare in serata.
Sono infatti ormai diversi anni che se ne parla. Il discorso segue la falsa riga di quello degli anni 90: abbiamo un debito altissimo, dobbiamo ridurlo, vendiamo un po’ di asset appetibili sul mercato e facciamo cassa.
Che detto debito vada ridotto non ci sono dubbi. Come abbiamo spiegato diverse volte, il debito non comporta tanto un problema di possibile fallimento – come paventato dalle agenzie di rating – ma risulta piuttosto essere un cappio intorno all’economia italiana, immobilizzando risorse preziose che potrebbero essere utilizzate per rilanciare la crescita, sostenendo i redditi, diminuendo il cuneo fiscale, etc.
Dunque in generale l’idea di fare cassa non è totalmente peregrina. Il metodo, invece, pare piuttosto discutibile. Innanzitutto esistono altre via, che con ostinata testardaggine ci si rifiuta di seguire, a cominciare da una pesante patrimoniale una tantum. Idea vagheggiata per mesi, e mai neanche discussa seriamente.
Meglio la strada più facile, la solita privatizzazione. Ma basterebbe guardare la storia per rendersi conto che si tratta di una via non solo inutile ma anche dannosa. La vendita del patrimonio industriale dello Stato non ha portato a nessun vero miglioramento dei conti pubblici nel corso delle prime privatizzazioni. Il debito pubblico si ridusse marginalmente, senza nessun vero impatto sull’economia reale non avendo attaccato le vere cause dei problemi economici nazionali – molta spesa pubblica improduttiva accompagnata da una crescita stagnante e bassissima produttività (leggi: fallimento delle privatizzazioni che avrebbero dovuto portare l’Italia nel magico mondo del mercato efficiente). Cosa è cambiato dunque tra prima e dopo le privatizzazioni? Il debito è rimasto alto, la crescita bassa ma i beneficiati della (s)vendita del patrimonio pubblico hanno notevolmente aumentato il loro conto bancario.
La lezione non sembra però esser bastata, anzi si alza la posta in gioco. Eni, Enel e Finmeccanica sono industrie strategiche per il futuro del paese, snodi cruciali attraverso cui passa la politica industriale ed energetica del paese nonché, come abbiamo visto dall’India al Kazakhstan, una bella fetta di politica estera. La crisi economica ha riportato in scena il ritorno dei campioni nazionali, mentre i nostri politici sono ormai ancora legati al superato concetto dei mercati concorrenziali, notoriamente inesistenti nei settori strategici dove sono i governi a promuovere interessi ed investimenti.
E’ vero che la politica industriale non ha necessariamente bisogno della proprietà pubblica, ma pensare di costruire un sistema economico integrato adesso in Italia pare davvero utopico. Il rischio della privatizzazione è la perdita di controllo definitivo sulle più importanti industrie italiane, che rischierebbero di essere sbranate da concorrenti stranieri legati ad interessi sia economici che politici potenzialmente ostili – è sicuramente il caso di Finmeccanica, per esempio.
Affidarsi a capitali italiani sembra ancora meno realistico, con un mercato alla canna del gas, una imprenditoria stanca e impelagata in continui scandali e che nel corso delle privatizzazioni ha dimostrato di essere attenta soprattutto al richiamo della rendita piuttosto che del profitto – basti pensare a Ilva, Autostrade o Alitalia, e senza neanche entrare nella cloaca degli scandali Telecom. E che ha sfruttato le proprie posizioni dominanti, “regalate” dallo Stato, per tenere in ostaggio la politica, altro che economie di sistema. La privatizzazione di Eni, una industria politica per eccellenza, non farebbe altro che aggravare il problema.
Pensare di abbandonare mercati strategici per convenienze di breve periodo denota scarsissima lungimiranza ed una idea strampalata dell’interesse nazionale. E rischia di condannare l’Italia ad una sempre più avvilente marginalità politica ed economica.
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