L’Italia in ginocchio

L’Italia in ginocchio

di Nicola Melloni – liberazione.it - 

Se la prendono tutti con noi. In una settimana l’Italia e la sua economia sono state bocciate senza pietà da agenzie di rating, Ocse, Istat e ora Banca d’Italia, un vero disastro.

Del declassamento di Standard&Poor’s avevamo già parlato. A questo, in brevissimo tempo si è aggiunto il rapporto Ocse che fotografa un Paese precario e senza lavoro, con produttività bassissima e che fa peggio della maggioranza delle altre economie “avanzate” che sono pure tutte in difficoltà. Poi l’Istat, povertà in aumento, indegna di un paese civile. Ed infine la Banca d’Italia che certifica un ulteriore peggioramento della recessione, con la crescita economica stimata a -1.9% per quest’anno. Dal prossimo anno, dicono, si dovrebbe tornare a crescere, storiella già sentita negli ultimi due anni, una speranza legata più a scaramanzie e preghiere che a dati di fatto.

Sono tutti dati legati tra loro che ci aiutano a capire bene la situazione economica e sociale. Un paese in recessione continua dopo anni di stagnazione. Un governo totalmente insensibile alla situazione sociale ed economica, con l’unico obiettivo dei conti in ordine, costi quel che costi. E quel che costa, per essere esatti, è l’austerity che aggrava la recessione, che aumenta la disoccupazione e la precarietà, che aumenta a sua volta la povertà. Che infine peggiora nuovamente la recessione.

E’ l’avvitamento classico delle crisi economiche che già John Maynard Keynes, a suo tempo, aveva così ben efficacemente descritto. In Europa, e non solo, si continua a sperare che le forze del mercato rilancino la crescita seguendo una logica vetero-liberale: disoccupazione in aumento vuol dire salari in ribasso e dunque costi minori per gli imprenditori; allo stesso tempo il fallimento di molte imprese libera risorse e spazio per nuovi imprenditori. In entrambi i casi ci si aspetta un nuovo ciclo di investimenti in quello che schumpeterianamente potrebbe essere definito come processo di distruzione creativa, che va favorito flessibilizzando ulteriormente il mercato del lavoro – i salari devono scendere ancora, le garanzie devono essere ulteriormente ridotte.

Il classico ritorno della cosiddetta supply-side, rilanciamo l’offerta grazie a costi minori e nuove opportunità di investimento e tutto si rimetterà a posto, come per magia. La nuova offerta creerà da sola la domanda per i nuovi beni e servizi. Rimane un dubbio: in un paese povero, senza occupazione, senza nessuna sicurezza per il futuro, chi dovrebbe consumare? E dunque, perché si dovrebbe produrre?

Per combattere la crisi, lo abbiamo detto millanta volte, bisogna sostenere la domanda, ed invece si fa l’esatto opposto. L’obiettivo principale sono i conti in ordine, ma quali conti? Solo il deficit, mentre altri parametri, dalla crescita all’occupazione pare non siano neanche presi in considerazione. Ed una nuova bella iniezione di flessibilità, la medicina salvifica, secondo l’Ocse e i suoi cantori italiani. Flessibilità che dovrebbe portare ad un aumento di produttività mentre è vero esattamente il contrario, soprattutto nel caso italiano. In una struttura industriale di piccole dimensioni, con scarso accesso al credito e strategie organizzative mediocri, la flessibilità ha portato semplicemente ad un super-sfruttamento del lavoro che ha sostituito sia l’investimento in capitale umano che la ricerca e lo sviluppo del prodotto. Risultati? Si crea sempre meno ricchezza, la ricchezza prodotta è distribuita in maniera sempre più ineguale, la povertà è in aumento, i consumi e la domanda – e dunque la crescita – sono stagnanti.

Tutta colpa della crisi? Tutt’altro. Piuttosto la crisi è conseguenza di questi fenomeni in atto da oltre vent’anni. Aggravati dalla caduta della domanda mondiale e dal credit crunch, ma connaturati tanto nella direzione assunta dall’economia internazionale negli ultimi decenni quanto nella sua applicazione, disastrosa, alla realtà economia italiana. I numeri sono davanti a tutti, impietosi. Bisognerebbe imparare a leggerli.


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