«Costruirono le stelle del mare/ li uccise la polvere/ li tradì il profitto»
Pubblicato il 17 lug 2013
di Alberto Prunetti – il manifesto -
Negli stabilimenti il colore della pelle e la nazionalità assegnano il posto di lavoro. In alto gli italiani, a seguire gli altri. Gli ultimi sono bengalesi. Tutti a rischio di tumore
Monfalcone è sul mare ma il litorale se l’è mangiato il cantiere. Non ci arrivi a toccare le onde, ti tocca prendere l’auto e spostarti di qualche chilometro. Per vedere il mare devo salire sulla terrazza della sede dell’Anpi, che era un tempo il dopolavoro operaio dello stabilimento della Solvay. Ma anche da lì, gli occhi cadono prima su un supermercato e poi sulla ciminiera della centrale a carbone dell’Enel, infine sulle gru enormi della Fincantieri. Il mare è lontano, a Monfalcone, quanto la giustizia. Sembra a portata di mano, eppure c’è sempre qualche grande stabilimento a mettersi di mezzo.
Provo a avvicinarmi a piedi.
Cammino per il quartiere operaio di Panzano, a fianco del cantiere navale che ha visto morire per tumori correlati all’amianto così tanti operai. Tra i coibentatori, su 120 ne sono sopravvissuti solo quattro. Mi stupiscono i cocci di vetri rotti che sormontano il muro perimetrale. Mi chiedo se in passato quei cocci rotti siano bastati a impedire alle fibre killer di scavalcare il muro. Come il vetro tagliente, i mattoni dividono il cantiere dalle casette ordinate di chi ci lavora dentro: il rione Panzano è un esempio di villaggio operaio all’interno di una company town, la piccola città di un grande cantiere. Luca, la mia guida dell’Unione Sindacale Italiana, mi porta a visitare il monumento alle vittime dell’amianto, che sorge in una piazzetta nel cuore di Panzano. Riporta una frase emblematica di Massimo Carlotto: «Costruirono le stelle del mare/ li uccise la polvere/ li tradì il profitto». Carlotto e altri scrittori, artisti e intellettuali hanno sostenuto la lotta degli esposti e dei familiari delle vittime dell’amianto, ma rimane tanto da fare perché il nemico è ovunque: basta alzare gli occhi dal monumento e subito dietro vedo spuntare, irridente, una lastra di eternit. L’assassino è ancora sul luogo del delitto e va al funerale delle vittime. Sorrido amareggiato. Attraverso la strada, provo a visitare il museo della cantieristica monfalconese, ma a quell’ora è chiuso. Mi infilo allora in un bar di operai e condivido con alcuni compagni uno spritz, che da queste parti non è altro che un leggero vinello bianco allungato con l’acqua minerale fresca. Sfoglio i giornali locali mentre il gestore pela le patate col sigaro in bocca.
Un articolo riporta un commento, alla vigilia della sentenza Italcantieri, della signora Romana, la presidente dell’Afeva di Casale Monferrato. È anche lei parte di questa terra perché è nata a Salona d’Isonzo e si è trasferita a Casale solo perché con i nuovi confini, nel dopoguerra, lo stabilimento Eternit dove lavorava suo padre era rimasto in Jugoslavia. Non è un caso che in Slovenia, a Nova Gorica, ci sia un sindacato specifico che tutela gli esposti all’amianto. Sono tantissimi in quel paese.
Suona la sirena, è finito il turno. Esco immediatamente per vedere aprirsi i cancelli dello stabilimento. Per strada spuntano una miriade di operai in bicicletta e a piedi. Ci sono colori diversi, sia per la pelle che per le tute. I due elementi tra loro sono correlati: una miriade di subappalti con ditte private, ognuna con una sua tuta, e la presenza di una divisione del lavoro in termini di classe. Una scala che pone una classifica degli sfruttati dove la divisione non è solo di classe: sotto gli italiani, a fare i lavori più nocivi, ci sono gli istriani e in fondo a tutti i bengalesi.
La sera ci troviamo per parlare d’amianto e fare il punto della situazione con Chiara Paternoster dell’Associazione Esposti. Ci diamo appuntamento alle 8 del mattino di martedì 25 giugno. Arriviamo a Gorizia da Monfalcone in pulman. Purtroppo siamo in pochi e le poltroncine sono in gran parte vuote. Altre persone sono comunque già arrivate con i loro mezzi. Ci ritroviamo nella parte del tribunale che ospita il pubblico. Cinquanta persone, in gran parte anziani, molte vedove, qualche nipote che forse non ha mai conosciuto il nonno. Con qualche minuto di ritardo l’udienza si apre. Il giudice fa l’appello, gli imputati, perlopiù dirigenti della vecchia Italcantieri, che gestiva i cantieri navali prima della Fincantieri, sono tutti liberi e contumaci. L’avvocato di uno dei vertici dell’azienda prende subito parola mettendo le mani avanti. Comprende il dolore dei familiari ma… Attendo il colpo e non ci mette troppo ad arrivare. Le associazioni con i volantini, gli articoli, e i sit-in avrebbero creato un clima poco sereno che non metterebbe i giudici in grado di giudicare con tranquillità. Un clima che preoccupa e che può creare problemi di ordine pubblico, sostiene. Nel pubblico ci guardiamo allibiti. Io fisso quelle vedove, quei vecchi ammalati, quei nipotini tenuti in collo. Sono loro il problema d’ordine pubblico? L’avvocato va avanti. Chiede pertanto una remissione del processo. Una sorta di eccezione procedurale. Vale a dire spostare tutto armi e bagagli da un’altra parte, per ripartire da zero, per annullare la domanda di verità e giustizia di queste vedove e di questi bambini. A me sembra assurdo, mi vengono in mente quelle situazioni infantili, quando giocavamo a pallone: tu segnavi un gol ma te lo annullavano perché il pallone era sgonfio. Penso che i padroni sono come i bambini prepotenti: fanno le regole durante il gioco e le cambiano quando stanno per perdere.
I giudici si ritirano in aula di consiglio e non escono più. Passano due ore. Tanto, troppo tempo. Sono preoccupato. Telefono a mia madre, che vuole essere aggiornata: è stupita che nel telegiornale stavolta non abbiano detto nulla, al contrario del processo Eternit. Ma stavolta non si processano dei cattivi magnati stranieri, stavolta i padroni sono italiani, e sarà tutto più difficile, lei dico. Poi le racconto quel che è successo, le parole dell’avvocato sulla presunta lesione della serenità dei giudici. Lei mi stupisce con una riflessione perfetta nella sua semplicità: «i giudici non sarebbero sereni? Chissà quanto sono sereni i familiari degli operai!» Ha ragione la casalinga più del togato, anche stavolta. Che dovevamo fare? «Scusate se vi turbiamo col nostro malessere. Anche noi non siamo sereni». Andrebbe scritto in uno striscione e appeso in ogni balcone tra Monfalcone e Gorizia. Scusiate se siamo venuti al tribunale, ma non siamo riusciti ad andare al mare, perché a Monfalcone il mare è lontano.
Intanto andiamo a prenderci un caffè, parlo con un operaio dei cantieri navali in cassa integrazione. La legge Fornero l’ha fregato. Avrebbe dovuto già essere in pensione ma adesso servono più anni di contributi. Ha chiesto il prepensionamento anticipato per il lavoro a contatto con l’amianto ma per ora le cose non si sono messe bene. Scambio due parole con un altro attivista. Lui non è un operaio, ma il figlio di un operaio dei cantieri navali. E i cantieri gli hanno portato via il fratello, morto in un incidente. Altri operai mi raccontano che ai saldatori e ai coibentatori che lavoravano a contatto con la fibra assassina, l’impresa regalava mezzo litro di latte, «per digerire l’amianto». Il latte serviva solo per andare più spesso al cesso, all’amianto gli faceva un baffo.
Torniamo in tribunale appena in tempo. Rientra il giudice, annuncia l’aggiornamento dell’udienza al prossimo 23 luglio. Niente sentenza, per ora. Si attende anzi che la cassazione si pronunci per capire se il processo sarà spostato e quindi, di fatto, annullato. Ce ne andiamo con un senso di frustrazione: a Monfalcone il mare è lontano e la giustizia ha messo sul piatto della bilancia mezzo litro di latte. Non so se basterà a digerire questa giornata ingiusta.
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