In difesa del finanziamento ai partiti e alla politica
Pubblicato il 3 giu 2013
di Francesco Marchianò -
È una grande tristezza assistere inermi alla riduzione e all’abolizione di qualsiasi forma di finanziamento della politica. E’ una sconfitta della democrazia, del progresso, di civiltà. Almeno della nostra civiltà europea. Si dice che sono i cittadini a volerla, che essa rifletta la rabbia del disagio sociale causato dalla crisi. Può darsi. Ma non è una buona politica quella che interpreta le rabbie. La politica dovrebbe risolvere i problemi che stanno all’origine della rabbia, non farsene un interprete populista.
È una regressione grave e pericolosa. Persino, si potrebbe dire, anticostituzionale. L’articolo 49 della nostra Costituzione recita:
“Tutti i cittadini hanno diritto di associarsi liberamente in partiti per concorrere con metodo democratico a determinare la politica nazionale”.
Se è un diritto vuol dire che lo stato dovrebbe garantirlo e non negarlo. Favorirlo, non sopprimerlo. Dovrebbe aumentare il finanziamento ai partiti, che in tantissimi paesi europei è nettamente più cospicuo che da noi, magari a scapito degli stipendi dei parlamentari. Poi certamente andrebbe regolamentato e reso trasparente, imponendo alcuni vincoli ai partiti.
Da noi si abolisce il finanziamento pensando di decurtare gli stipendi dei politici e non si capisce che a rimetterci, come ha ricordato Ugo Sposetti al Corriere della Sera, sono in realtà le persone che nei partiti e nelle fondazioni collegate lavorano per poche centinaia di euro al mese. Sono quelli che lo fanno per passione prima ancora che per denaro a pagarne le conseguenze.
Ma non è solo questo. L’abolizione del finanziamento alla politica ha a che fare con l’essenza stessa della democrazia sostanziale. Persino un bambino capirebbe che, senza il finanziamento, si andrebbe incontro solo a tendenze plutocratiche e degenerative: la politica la potrebbero fere solo i ricchi e i partiti diventerebbero ricattabili da chi ha denaro e sarebbero, dunque, costantemente sotto lo scacco delle lobby economiche e dei poteri forti. Vince il mercato, perde lo Stato. Vincono le banche e le imprese, perdono i cittadini. Il pubblico si suicida a favore del privato. Una tragedia politica e sociale.
Nel discorso pubblico si lascia credere che siano i cittadini a volere l’abolizione; in realtà è il mondo della finanza e dell’economia che lo desidera visto che teme, in questo periodo di crisi, le risposte che possono venire da partiti strutturati che possono portare avanti istanze reali di cambiamento dal basso. Sono gli stessi soggetti che, avendo a disposizione i mass media, sono riusciti a montare la polemica, inconsistente, contro la casta. Voglio che lo Stato non finanzi la politica ma poi pretendono che utilizzi i soldi dei cittadini per pagare i debiti delle banche.
Chi difende la democrazia dei partiti viene accusato di essere novecentesco. Sarà. Ma chi lo dice, dietro la sua presunta ipermodernità, è in realtà un ottocentesco che propone (inconsapevolmente?) il ritorno ai notabili muniti di comitati personali, alla società civile (molto più ridotta del corpo elettorale) che, in virtù del suo potere cognitivo ed economico, persegue solo interessi privati senza quella “intuizione del mondo” tipica dei partiti.
È la vittoria delle miserie del liberalismo italiano che smise di essere classe dirigente quando comparvero i partiti dimostrando di non sapere dialogare con la modernità della democrazia di massa. Allora, per togliere di mezzo i partiti, si servì anche del fascismo. Oggi è bastato solo aver montato una battaglia mediatica e populista per raggiungere lo stesso scopo.
huffingtonpost.it
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