Una grande bellezza che dura un solo quarto d’ora

Una grande bellezza che dura un solo quarto d’ora

di Antonello Sotgia -
Hai quasi l’impressione che Paolo Sorrentino riprenda con due soli “fuochi”: macro e grandangolo. A permettersi il chiudere sui particolari e, immediatamente dopo, l’allargare su Roma. Vedi il macro puntare senza pietà sul soggetto e poi il grandangolo che, come velato dal filtro della (ma non è una novità) straordinaria fotografia di Luca Bigazzi, si appoggia sulla città.

Il primo quarto d’ora del film è bellissimo. Muovendo la macchina come un occhio onnivoro – tutto vuole vedere, tutto vuole toccare- Sorrentino graffia, fino a spiaccicarli sulla lente dell’obiettivo corpi e volti per tirarli fuori dai luoghi dove, scompostamente, si agitano.

Resti ipnotizzato da questa moltitudine, raccontata, come se fossero una persona sola, un unico corpo massiccio. Un immenso Polifemo, il cui occhio vede solo all’interno di quel corpo sgraziato e molle, il confine entro cui è ristretto e di cui è prigioniero, per capire se potrà essere mai varcato. Sorrentino ti dice che corpi e città non coincidono. Neppure su come, gli uni e l’altra, vengono osservati e, quindi, raccontati.

Vedi corpi. Per lo più: seduti, distesi in letti sfatti, perennemente “attovagliati”, stravaccati su divani imprigionati in una terrazza “mozzafiato” di una casa che Jep Gambardella, il protagonista del film “governa” sapientemente come valore aggiunto alla sua mondanità, alla sua stessa esistenza.

Lui che di gossip vive, che tutti conosce, che tutti ricorda, che spiattella con sufficienza tutte le citazioni “giuste” neppure si degna di gettare, mai, uno sguardo verso il basso. Ignora quel “mezzanino” poco distante di cui un ministro della Repubblica si è trovato inaspettatamente proprietario.

La politica, almeno come riferimento esplicito, è completamente assente. Un corpo estraneo, miserevole. Come possono sembrare a Jep, quelle stanze del ministro, incastrate in un’intercapedine tra i livelli di una casa, che non hanno neppure un balconcino. Così come estranea è la città.

I divani disposti, sulla terrazza, ostentatamente spalle al Colosseo, ti fanno capire che Roma è sottratta come luogo, proprio da queste esistenze tutte pronte a consumare l’oggi. Quello che sta accadendo, senza pensare al giorno dopo. Senza preoccuparsi di ciò che c’è di sotto, sulle strade o sotto quel cielo, quasi sempre, di colore cobalto.

La lezione di Benjamin sul “perdersi in città”, non vale. La crew di Jep Gambardella non vuole scoprire nulla, né sembra avere tempo e voglia di contaminarsi con il meraviglioso urbano che intercetta. Né, tantomeno, con quella parte della città che lotta per vivere meglio e per cambiarla. Pare non vederla.

Per questo, Sorrentino, si serve, sempre, di un punto di appoggio per osservare questa Roma.

Sistema il suo occhio di ripresa sui bordi delle terrazze, lo pianta sulla balconata del Gianicolo, l’appoggia alla facciata concava di S.Agnese in Agone, per, poi, spostarlo all’interno di appartamenti assolutamente “glamour”, o fuori da finestre altissime come se, aprendole, fosse la macchina da ripresa a illuminare quelle stanze annoiate con la propria luce.

Tutto questo può essere raccontato perché Joe Gambardella questo vive. Con rimpianti intellettuali (riuscirà più a ritrovare la magnifica bellezza dello scrivere?), frequentando tanti conoscenti senza avere veri amici, ricercando la lievità esistenziale in un’anziana ragazza spogliarellista (una brava Sabrina Ferilli), impietoso con una sceneggiatrice televisiva, con cui non si ricorda se hai mai fatto l’amore, ma a cui ricorda tutte le proprie insicurezze da lei ostentate come scelte civili, paterno verso uno sfortunato scrittore (un Carlo Verdone assolutamente convincente) di provincia.

Quest’ultimo vive al Prenestino (ti accorgi che è il solo accenno dell’intero film a ciò che accade, fuori dalle mura aureliane, nelle periferie) in una stanza. Come uno studente affastella carte, tavoli, computer e un motorino appoggiato su di una ruota su di una parete quasi fosse un grande pupazzo di peluche…

Tornerà al sud sconfitto. Jep lo accetta come un fatto naturale. Così, come, accetta, senza stupore alcuno, la comparsa, tra le volte delle Terme di Caracalla di una giraffa per vederla, poi, scomparire dietro le formule di un prestigiatore. Ma il primo quarto d’ora del film è passato da un pezzo e la giraffa è una delle tante “trovatine” da sceneggiatura che appesantiscono la storia. Così come le citazioni.

D’obbligo quelle alla Dolce Vita. Alla linea degli Acquedotti; da Fellini colta come elemento d’ordine, una via dell’acqua, sorvolata ed omaggiata dall’elicottero che trasporta il simbolo della romanità: la statua del Cristo, qui ridotta a location per un installazione artistica. Agli emiri arabi che, nel film di Fellini, non parlano caparbiamente di cibo e, qui, sono rappresentati mangiare con opulenza in bella mostra in una di quelle volgari vetrine disegnate da Portoghesi per i ristoranti di una deserta via Veneto.

Jep frequenta feste, mangia, beve, sniffa, ma per ritrovare il sapore del cibo (le sue origini) deve aspettare che la direttrice del giornale dove scrive, poggi scodelle e piatti facendosi largo tra carte e libri. Lei lo apprezza e coccola; se ne serve e non lo disprezza, ma non sa commissionargli le pagine che servirebbero a farlo tornare a scrivere veramente.

Lui vuole raccontare, ma non sa scavare, né stupirsi di fronte quello che vede. Lo capirà quando ospitando nella sua terrazza una santa, venerata come una pop star con tanto di agente impresario e cardinale d’appoggio, questa, biascicando le parole, gli dirà semplicemente che “La povertà non può essere raccontata, va vissuta”.

Troppo tardi. Joe Gambardella sa bene, perché la letteratura sembra conoscerla, che Jack London per scrivere “il popolo degli abissi” ha inventato prima delle parole, le forme della loro redazione andando a vivere a lungo nell’East End.

Questo lui non può fare perché prigioniero della grande bellezza non rappresentata da Roma, ma dalla letteratura, dai pensieri, delle parole che accompagnano il farsi continuo della città unitamente alla speranza di trovare qualcuno che sappia raccontare tutto questo e, al posto di racchiudere tutto ciò nel feticcio del libro/capolavoro, riesca a celebrare proprio la potenza di questo incontro.

Jep sembra aver capito che a lui non capiterà perché nel tempo è diventato se stesso Roma.

Proprio “quella Roma” caparbiamente arroccata al riparo nella tana costruitale intorno dal potere finanziario immobiliare scavando incessantemente nel corpo della città che non vuole neppure conoscere per intero, ma che, per intero, vuole sfruttare.

Jep cammina da solo, offrendo i colori delle sue magnifiche giacche ai raggi del sole all’alba o al tramonto, non vuole conoscere nessuno, né riconoscere che ci possa essere un altro Joe.

Questa Roma è sola perché incapace di riconoscere che Roma è fatta di tante altre Roma.Il film finisce dopo il primo quarto d’ora; lo Tsunami tour è solo alle battute iniziali.

da dinamopress.it


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