Il business mette d’accordo le élite di entrambe le parti
Pubblicato il 29 mag 2013
di Michele Giorgio -
Forse non ha mai incontrato Mario Monti, eppure Munib Masri, il più noto (e ricco) degli imprenditori palestinesi, ha tanto in comune con l’ex premier italiano. A partire dal convincimento che tutti i problemi possono trovare una soluzione attraverso le scelte delle élite economiche. Generoso ma non disinteressato finanziatore dell’Olp, Masri dopo la firma degli Accordi di Oslo (1993) e la nascita dell’Autorità nazionale palestinese (Anp), fu ricompensato dallo scomparso presidente Yasser Arafat con il monopolio (a quel tempo) della telefonia mobile in Cisgiordania e Gaza, e molto altro. Da allora l’imprenditore palestinese tiene un piede nell’Anp e l’altro fuori. Per poi rimetterli entrambi dentro quando una parvenza di diplomazia lascia intravedere possibilità nuove per quella «pace economica» che evidentemente non piace solo al premier israeliano Netanyahu.
Masri, che è presidente della Padico Holding Chairman, domenica scorsa era al World Economic Forum in Giordania, con capi di stato e di governo, con ministri di alto rango, primo fra tutti il Segretario di Stato Usa John Kerry. Alla testa di 200 imprenditori palestinesi e israeliani, assieme al suo partner di quest’ultima missione in nome «dei buoni affari», Yossi Vardi, presidente delle International Technologies Ventures, Masri ha lanciato l’iniziativa Breaking the Impasse. «Un gruppo di uomini d’affari della Palestina e di Israele – ha spiegato – hanno messo insieme le loro competenze per aiutare i leader politici a raggiungere un accordo di pace». Sulla stessa lunghezza d’onda le dichiarazioni di Vardi. «Sarà nostro impegno trovare una soluzione di pace per i due popoli… Basta lacrime versate dalle madri israeliane e palestinesi».
A non pochi è sembrato di fare un salto indietro di una quindicina di anni, alla retorica pacifista tipica degli anni successivi alla firma di Oslo che decorava i discorsi degli imprenditori delle due parti, interessati più ad aumentare i profitti che ad aiutare la realizzazione dell’aspirazione alla libertà dei palestinesi sotto occupazione. Anche in quell’ottica è stata organizzata a Tel Aviv la conferenza dell’high-tech Business not barriers, «affari non barriere», organizzato dal centro Peres per la pace, dall’associazione delle società di high-tech in Israele e dall’Unione delle Camere di commercio, e alla quale prenderanno parte decine di imprenditori della Cisgiordania. In casa palestinese la conferenza ha creato non pochi fermenti e una «condanna» è giunta persino dall’Anp, che pure mantiene rapporti anche di coordinamento di sicurezza, con Israele. Un portavoce di Abu Mazen ha parlato di «normalizzazione inaccettabile».
A spingere i businessman palestinesi nelle braccia di quelli israeliani sarebbero, dice qualcuno, le aspettative generate dalla «diplomazia dello shawarma» di John Kerry, che tra un panino con la carne speziata mangiato in strada a Ramallah e le promesse di una soluzione rapida del conflitto fatte l’altro giorno in Giordania, ha annunciato investimenti privati americani per 4 miliardi di dollari nelle terre palestinesi, in particolare nel settore dell’immobiliare turistico. Ha teorizzato inoltre una riduzione dei due terzi della disoccupazione in Cisgiordania e un aumento del 40% dei salari medi. A chi sarà affidata la realizzazione di questo “paradiso” al posto dell’inferno? A Tony Blair, l’ex premier britannico guerrafondaio ora emissario del Quartetto in Medio Oriente, reduce da un tour in Cisgiordania con l’amministratore delegato, guarda un po’, della Coca Cola. Kerry non ha dubbi: è il «più audace progetto» dalla firma di Oslo.
Ricette miracolose ai quali non crede più neppure l’accomodante presidente dell’Anp Abu Mazen, rimasto piuttosto freddo. Il cielo non è sempre più blu come vuol far credere Kerry che in quattro missioni nella regione non è riuscito a strappare a Netanyahu neppure il congelamento di una sola casa nelle colonie israeliane nella Cisgiordania occupata. E il peggio avanza. Il Likud, partito guidato dal premier israeliano, sta lavorando a una legge fondamentale che proclamerà tutto il territorio storico della Palestina, inclusi i Territori occupati, parte della biblica «Eretz Israel» e quindi di “proprietà” del popolo ebraico. La stessa legge prevederà un forte ridimensionamento dell’arabo, oggi lingua ufficiale in Israele. Un bel modo di preparare la coesistenza di cui vanno parlando Kerry e il palestinese Munib Masri.
Il Manifesto – 29.05.13
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