Quel “No” di Bologna
Pubblicato il 28 mag 2013
di Vito Meloni -
Per chi, come noi del PRC, si è sempre battuto per la difesa della scuola pubblica e per il rispetto della nostra bistrattata Costituzione, il risultato del referendum di Bologna è motivo di grande soddisfazione per più di una ragione. Innanzitutto per il dato in sé: chiamati a pronunciarsi sulla destinazione dei soldi pubblici – alla scuola dell’infanzia pubblica o a quella privata, nella quasi totalità confessionale – i cittadini bolognesi hanno dato una risposta netta ed inequivocabile, pronunciandosi al 60% contro i finanziamenti alle scuole private.
Non era per nulla scontato. A sostenere le ragioni, e gli interessi, delle scuole private c’era un formidabile schieramento, dal sindaco Merola a tutto il PD, passando per Confindustria, la Curia, il Cardinal Bagnasco, il PdL, la Lega Nord e Scelta Civica. Con l’aggiunta negli ultimi giorni della neo-ministra della Pubblica Istruzione, Carrozza, evidentemente dimentica che poche settimane prima aveva giurato sulla Costituzione (ammesso che l’abbia mai letta…).
Uno schieramento che durante la campagna referendaria aveva dispiegato tutta la sua potenza di fuoco, non esitando nemmeno a ricorrere alla menzogna, come quella che paventava l’espulsione di ben 400 bambini dalle scuole dell’infanzia in caso di affermazione dell’opzione “A”. E che oggi è impegnato a minimizzare la portata del risultato, con i più svariati pretesti, primo fra tutti quello della scarsa partecipazione. C’è perfino chi, come il deputato del PD Edoardo Patriarca, arriva a ribaltare l’esito del referendum, sostenendo che solo il 15% (il dato corretto è 17%) dell’intero corpo elettorale, dunque una esigua minoranza, si sarebbe pronunciato per l’opzione “A” e che «i bolognesi hanno capito che la sussidiarietà è la chiave di volta». Ragionamento bizzarro, che non mette in conto che, applicando questo singolare metodo di calcolo, l’altra opzione è stata scelta da una minoranza di gran lunga più esigua, appena l’11%!
In realtà, il fatto che in tempi di astensionismo dilagante il 30% dei bolognesi sia andato a votare in un referendum consultivo che, è bene ricordarlo, non prevede il raggiungimento del quorum per essere valido, non va sottovalutato. Soprattutto alla luce dei molti ostacoli che, con lucida determinazione, sono stati frapposti alla partecipazione. A cominciare dall’azione del sindaco Merola che ha pervicacemente negato l’abbinamento della consultazione referendaria con le elezioni politiche, come richiesto dal comitato promotore. Una sorta di election day su scala locale che avrebbe fatto risparmiare quattrini, giusto per restare in tema di risorse economiche, e che avrebbe sicuramente favorito una partecipazione ben più ampia. Ma forse era proprio questa che si temeva, visto che erano state raccolte ben 13.000 firme in soli tre mesi per la presentazione dei quesiti. Per dare un’idea delle proporzioni, è come se per un referendum nazionale si raccogliessero due milioni e mezzo di firme! Numeri assolutamente significativi, tanto più in un Paese in cui l’opinione di poche centinaia di persone raccolta attraverso un sondaggio può perfino decidere le sorti di un governo…
Ora l’impegno di quanti hanno contribuito al raggiungimento di questo straordinario risultato deve proseguire, per fare in modo che la volontà dei cittadini venga rispettata, vigilando sulle possibili furbizie di chi, come il sindaco Merola, si propone addiritttura di «conciliare i due schieramenti»!
In ogni caso, al di la delle cifre, il referendum di Bologna ci consegna un chiaro dato politico: quando i cittadini sono chiamati a pronunciarsi su quelli che vengono definiti “beni comuni”, come è stato per l’acqua, oppure a rivendicare le garanzie per l’esercizio di un diritto universale costituzionalmente garantito, come nel caso di Bologna, la risposta è chiara ed univoca.
Che questo avvenga proprio nella città e nella regione che sono state le avanguardie nella rottura dell’argine costituzionale che impediva, e ancora dovrebbe impedire, i finanziamenti pubblici alle scuole private – il «senza oneri per lo stato» dell’articolo 33 – rende questo risultato ancora più significativo. È a Bologna, infatti, che, già a metà degli anni ’90, si adotta la convenzione che garantisce il finanziamento alle scuole dell’infanzia private. È da lì che è partita l’offensiva politico-culturale che porterà dopo pochi anni alla Legge di parità, sotto il cui ombrello il finanziamento alle scuole private assumerà negli anni successivi e fino ai nostri giorni dimensioni sempre più consistenti.
Non solo i 530 milioni di euro del bilancio statale ricordati pochi giorni fa dalla ministra Carrozza che, con incredibile leggerezza, li ha definiti una piccola somma a confronto di quanto lo Stato spende per la scuola pubblica. É un flusso che passa attraverso mille rivoli, a tutti i livelli, dalle Regioni alle Provincie, fino ad arrivare al più piccolo dei Comuni, a volte con provvedimenti espliciti, altre in forme sotterranee. Basti pensare al sistema scolastico della Provincia di Trento, quello cui l’ex ministro Fioroni considerava un modello da esportare, nel quale, con il pretesto dell’autonomia, i finanziamenti possono coprire anche le spese per arredi e strutture, quasi che quello fosse un territorio affrancato dal dovere di rispettare la Costituzione Italiana. O al finanziamento alle “sezioni primavera” – maldestro tentativo di correggere gli anticipi nelle iscrizioni alla scuola dell’infanzia introdotti dalla riforma Moratti – gestiti dalle Regioni e assorbiti per oltre il 90% dalle scuole private, tanto per cambiare nella quasi totalità confessionali.
Il risultato del referendum di Bologna segna una netta inversione di tendenza.
Sta alle forze della sinistra, quella vera, ai movimenti, alle associazioni, ai tanti cittadini che hanno a cuore il destino della scuola pubblica e la difesa intransigente della Costituzione raccogliere il testimone e rilanciare la battaglia contro il finanziamento delle scuole private. In qualunque forma esso avvenga.
Sostieni il Partito con una
Appuntamenti