La modernità del Presidente, un’eco della Milano da bere

La modernità del Presidente, un’eco della Milano da bere

di Paolo Favilli -
La giustificazione dei vari salvataggi di Berlusconi con lo stato di necessità ha legami evidenti con la concezione della modernità che fin dagli inizi degli anni Ottanta ha caratterizzato la linea di Napolitano. È lo stesso progetto del Craxi leader politico e uomo di Stato, che cancella il Craxi gravato da vicende giudiziarie
Usare l’espressione «governo Berlusconi-Napolitano» per l’attuale esecutivo guidato (?) da Enrico Letta, non è assolutamente una forzatura polemica, ma corrisponde a un dato di fatto difficilmente controvertibile. I due protagonisti dell’accordo, però, non potrebbero essere più diversi. Da una parte un avventuriero per cui la politica è nient’altro che la continuazione dei propri affari (e dei malaffari) con altri mezzi. Dall’altra un uomo politico di indubbia integrità personale. L’avventuriero considera le «larghe intese» alla stregua di un espediente contingente, un accordo da rompere al momento più opportuno secondo calcoli di convenienza personale. L’uomo politico, invece, sebbene sia cosciente (per lo meno oso credere) degli aspetti miserevoli di queste larghe intese, le fa derivare da una convinzione profonda maturata in tempi lontani.
Su tale base si prova a nobilitare l’ultima delle operazioni di salvataggio dell’avventuriero facendo esplicito riferimento alla tradizione togliattiana, a quella tradizione che vedeva nella rottura del 1947 una grave iattura per la prospettiva, aperta con il patto costituzionale, di una democrazia progressiva in Italia. Facendo riferimento, inoltre, al compromesso storico di Berlinguer, visto come la traduzione in proposta politica pratica della visione strategica di Palmiro Togliatti.
Si tratta, mi pare ovvio, di una pura copertura propagandistica. Il mio maestro universitario, Ernesto Ragionieri, un intellettuale comunista che Napolitano ha conosciuto bene, c’insegnava ad avere in sospetto la nostra stessa propaganda, a non crederci sempre, e comunque a non far derivare dalla propaganda le scelte politiche dirimenti.
Penso che il presidente della Repubblica, il garante politico del governo, sia ben cosciente della impossibilità di accostare la tensione verso intese con forze che avevano contribuito alla stesura del patto costituzionale, nella prospettiva di progressi reali della democrazia, ad accordi con nemici di quella costituzione, nella prospettiva di rendere immutabili, anzi di rafforzare, gli equilibri economici e politici attuali. Se così non fosse il degrado culturale che ci circonda avrebbe raggiunto livelli che non osiamo immaginare.
In questa rappresentazione propagandistica costruita dal presidente della Repubblica c’è però anche un importante elemento di verità. La giustificazione dei vari salvataggi dell’avventuriero con lo stato di necessità (a ben vedere uno stato di eccezione permanente) ha legami evidenti con la concezione della modernità che fin dagli inizi degli anni Ottanta, per lo meno, è stata tipica dell’allora dirigente di primo piano del Partito comunista.
È in quella prima fase del mutamento del ciclo economico e politico che il problema della modernità diventa elemento di riflessione anche per l’iniziativa politica. Il termine riflessione è forse troppo impegnativo per il discorso sulla modernità condotto da una classe politica che stava rapidamente trasformandosi in ceto politico. A parte rarissime eccezioni, infatti, tale discorso non si sollevò mai al di sopra della banalità di una modernità concepita come naturale effetto dello svolgimento lineare del tempo. Quello che viene dopo, insomma, il nuovo, è il moderno, migliore del vecchio per essenza, spazio in cui necessariamente dislocarsi. La critica di quel moderno non poteva che essere antimoderna. Giorgio Napolitano non fu uno di quei politici capaci di sottrarsi alla pervasività del senso comune prevalente. Anzi il fastidio per gli aspetti radicali connessi alla funzione della critica non poteva che portarlo a considerare i processi in atto come fenomeni naturali. E, come è ovvio, non si dà critica della naturalità.
A leggere la rivista Il Moderno uscita a Milano nell’aprile del 1985, la rivista che, nella «capitale morale», rappresentava il «nuovo» della corrente del Pci di cui Napolitano era il punto di riferimento riconosciuto, si ha l’evidente prova, addirittura in eccesso, di questo dato di fatto. «L’innovazione nella società, nell’economia, nella cultura» di cui la rivista si proclama portatrice trova rapidamente la personificazione del processo auspicato, «il principale agente di modernizzazione»», in colui che «ha trasformato Milano in capitale televisiva e che ha fatto nascere (…) una cultura pubblicitaria nuova..» (febbraio 1986). La «Milano da bere», insomma, è la modernità.
Non devono stupire, dunque, quelli che sono i motivi profondi dell’opposizione davvero radicale di Giorgio Napolitano all’elaborazione culturale e politica che aveva contraddistinto gli ultimi anni della segreteria di Enrico Berlinguer.
È proprio Berlinguer, infatti, che riflette, e di una vera riflessione si tratta, sulla dimensione ambigua e plurale delle promesse moderne. Sui processi di trasformazione in corso che stanno invalidando le promesse di emancipazione della modernità. Sui caratteri specifici delle molteplici modernità. Sulla crisi, e dunque sulla critica necessaria, di un modello di modernità politica incapace di sviluppare la dimensione economica in modo inclusivo/egalitario. Proprio questo è aspetto e problema costitutivo della modernità.
Che la critica della modernità, fondamento della modernità stessa, sia stata (sia) fatta passare per atteggiamento culturale antimoderno è uno dei portati del clima ideologico dominante dopo la fine delle ideologie.
La riflessione critica di Berlinguer non poteva, quindi, sfuggire alla questione centrale del problema: la qualità della democrazia compatibile col capitalismo nella diversità dei suoi cicli di accumulazione.
Ebbene, nello stesso tempo, Napolitano stava progressivamente lasciando quella dimensione della modernità, tipica della storia e della cultura del movimento operaio e socialista, che consiste nel pensare il capitalismo come problema.
E allora la modernizzazione del sistema politico non poteva essere che quella ipotizzata da Bettino Craxi, l’interprete politico della modernità della «Milano da bere».
In una lettera scritta ad Anna Craxi in occasione del decennale della scomparsa del marito, i lineamenti di questa profonda convinzione di Napolitano emergono con particolare chiarezza. Anche in questo caso Napolitano cerca di nobilitare la sua operazione politica con l’esigenza di «un sereno giudizio storico», ma ai criteri di metodo e di analisi relativi al «giudizio storico» l’argomentazione del presidente della Repubblica resta del tutto estranea.
L’asse portante di tale argomentazione concerne la considerazione a parte delle vicende giudiziarie di Craxi. La loro separazione dal giudizio complessivo «della sua figura di leader politico, e di uomo di governo». Una volta separate le ombre dalle luci sono queste a illuminare il quadro. È la luce della modernizzazione del sistema politico italiano, una modernizzazione che ha come stella polare il controllo degli «eccessi di democrazia», che fa risaltare il merito storico di chi ha pensato la «grande riforma».
Si comprende bene come per tutto questo lungo periodo la convinzione profonda di Napolitano sia stata quella di portare a termine, nelle condizioni possibili, il progetto del Craxi leader politico e uomo di Stato, senza il bagaglio del Craxi gravato da vicende largamente provate di corruzione a scopo di finanziamento del partito e di arricchimenti privati.
Il fatto è che la forma tipica italiana risultante dalla programmata separazione di un ceto di governanti da quella dei governati, di un ceto politico da un popolo ritrasformato in plebe, è quella della formazione di una corte a suggello del successo dell’«imprenditore politico», dove di politico ci sono soltanto le forme attraverso cui si arriva al consenso pubblico, e il soggetto vero è l’imprenditore della propria fortuna. Il comune plebeismo, di ceto politico e soggetti che consentono, è una delle chiavi del successo dell’operazione.
Napolitano è certamente riuscito, dal punto di vista della sua persona, a proseguire nel programma del Craxi dimidiato, del Craxi uomo di Stato. Il governo Napolitano-Berlusconi però, ci riporta al Craxi intero. E non è un paradosso.

Il Manifesto – 28.05.13


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