Proporzionale puro, se non ora quando?
Pubblicato il 24 mag 2013
Massimo Villone -
Tanto tuonò che piovve. Quagliariello ha consegnato alle camere il pensiero del governo sulle riforme. Ma non è andato oltre una uggiosa pioggerellina autunnale. Apre con la necessità di riformare le istituzioni, e assembla a tal fine i luoghi comuni che da più di vent’anni infestano il pensiero degli aspiranti padri della patria. In particolare, due. Il primo è l’affermazione che si rivede solo la seconda parte, mentre non si tocca la prima parte della Costituzione. In realtà, è già stata ampiamente – se pure indirettamente – picconata. Basta pensare alla riforma dell’articolo 81, con l’obbligo costituzionale del pareggio di bilancio, che ha come effetto collaterale quello di comprimere le risorse disponibili per la realizzazione dei diritti «a prestazione» di cui alla prima parte. O si pensa, ad esempio, che un problema come quello degli esodati sia costituzionalmente irrilevante? Ancora, la riforma del Titolo V, Parte II, incide pesantemente sulla Parte Prima, dando copertura costituzionale a livelli elevati di diseguaglianze territoriali. E poi, come si può seriamente dire che la Parte Prima non si tocca quando una percentuale alta e crescente della popolazione è già, o sta scivolando, sotto la soglia di povertà?
Il secondo luogo comune è che bisogna rafforzare governabilità e stabilità, con riforme della Costituzione, dei regolamenti parlamentari e della legge elettorale. L’obiettivo di fondo è che nessuno disturbi il manovratore.
Diciamo subito che il governo è debole davvero. Ma per motivi che nulla hanno a che fare con il rapporto tra esecutivo e legislativo. Sono motivi strutturali, che vanno dal rapporto con l’Europa, al trasferimento alle regioni di poteri e risorse molto consistenti, all’istituzione di numerose autorità indipendenti, alle privatizzazioni e liberalizzazioni. Tutto ciò ha tolto all’esecutivo materia e strumenti di governo, indebolendone la capacità di formulare e attuare un indirizzo politico. Bisogna correggere tutto questo? Sì, per quanto possibile. Ma cosa c’entra il rapporto con le camere? Proprio nulla.
Eppure, il pensiero unico punta su questo. Con risultati talora persino divertenti. Ad esempio, che differenza c’è tra il porre la questione di fiducia per stroncare gli emendamenti e l’avere regolamenti parlamentari che in vario modo limitino in radice l’emendabilità della proposta del governo? Nessuna. Il risultato è esattamente lo stesso. Alla fine, rimane in campo solo l’esecutivo. Perché una via dovrebbe considerarsi conforme ai canoni della democrazia e l’altra no?
Qui viene la madre di tutte le soluzioni: agire sulla legge elettorale, per avere maggioranze coese e allineate dietro l’uomo al comando, e lasciando i politicamente diversi fuori della porta delle istituzioni. Nessuno sembra voler davvero imparare da Grillo. Gli si può contestare la linea politica, o la gestione incostituzionale della democrazia interna. Ma Grillo certamente dimostra che non c’è premio di maggioranza o sistema costrittivo che possa fermare la novità che avanza, quando ciò che esiste non dà risposta. Quanti Grillo vogliamo creare? Non dimentichiamo la lezione della storia. La più grande prova che le istituzioni repubblicane hanno dato è la lotta al terrorismo. La forza delle istituzioni fu la loro rappresentatività. Sarebbe stato meglio se un premio di maggioranza avesse allora ridotto la forza del Pci, aprendo la strada a governi monocolore Dc?
Quagliariello parla di complessità, velocità di decisione, modernizzazione. Poniamo invece un assioma: in un sistema democratico l’unico rasoio di Occam è la rappresentatività. Quanto più il cambiamento è rapido e profondo, tanto più c’è bisogno di condivisione. E allora bisogna aprire il sistema politico alla novità, facilitare la strada per le new entries, ridurre al minimo ostacoli e paletti. Non ridurre forzosamente la complessità, piuttosto rifondare la politica per poterla governare: questa la risposta. Se mai c’è stato un momento giusto per tornare al proporzionale poco o nulla corretto, è questo. Ed è la strada migliore – con la misura di un consenso effettivo e non nei soli numeri parlamentari – per forgiare una nuova classe dirigente. Quella che abbiamo è arrivata, con ogni evidenza, al capolinea.
Su una cosa si può essere d’accordo con il ministro: bisogna guardarsi dal conservatorismo costituzionale e dall’accanimento modellistico. Giusto. Sempre che ci guardiamo anche dalla stupidità del pensiero unico.
Il Manifesto – 24.05.13
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