Don Gallo, il tributo di Genova. Costituzione, Bibbia e bandiera rossa
Pubblicato il 24 mag 2013
di Elena Rosselli -
L’edizione paolina della Bibbia aperta sul Qoelet. E la Costituzione, sottolineata a penna nei punti preferiti. E poi la bandiera della pace che avvolge l’estremità del feretro. Il cappello nero appoggiato sul vessillo rossoblù del Genoa, la squadra del cuore. Lo striscione del gruppo ‘Pé No Chão‘, gli “educatori di strada” di bambini e bambine delle favelas brasiliane.
La maglietta del Giro d’Italia, la numero uno, con la scritta “Genova” sul fondo. Il drappo rosso dei partigiani della Valpolcevera. E fiori, caricature, messaggi, candele. Due registri pieni di firme e messaggi raccolti in meno di 24 ore.
E’ anche questo la camera ardente di don Andrea Gallo, anzi, del “Gallo”, morto a Genova il 22 maggio nella stanza dove da giorni era assistito dalla grande famiglia di “Sanbe”, la comunità di San Benedetto al porto, da lui fondata negli anni ’70 per accogliere tossici, prostitute, emarginati in generale, chiunque, drogato o meno, non si sentisse parte di una società esclusiva che respingeva al di fuori i suoi figli meno omologati.
Figli che oggi sfilano nella chiesa di San Benedetto per dire “io ci sono” con quel misto di riservatezza e fastidio per tanto clamore di flash attorno alla bara del Gallo. Sensazioni schive proprie dei genovesi o di chi Genova l’ha fatta sua vivendoci. Un uscio stretto con due scritte – “entrata” e “uscita” – a indicare la via al flusso continuo di persone venute a salutare “il don”.
Sfilano i volti scavati dall’eroina. Perché non c’è nessun’altra droga che rode così il corpo e i lineamenti di chi l’assume, mangiando giorno per giorno ogni eccesso di carne e lasciando sulla pelle il marchio perenne del “peccato”. “San Benedetto è la comunità più libera che esista. Non ci sono regole. Ci sei tu e il fuoco che hai dentro di tornare alla vita – spiega D. che con la ‘roba’ ha iniziato a 16 anni per poi smettere poco dopo, ma ricominciare a 28 e di nuovo smettere, questa volta “per sempre” a 32, “grazie al Gallo”, perché “Sanbe è la comunità più difficile dove io sia stato, ma anche l’unica che ha funzionato”. Perché “nessuno ti obbliga a entrare o uscire, ad avere dieci o venti sigarette, a fottere tutti i soldi della cassa comune e tornare a farti”. La porta, a Sanbe, è aperta. “Si entra che si è zero” e “si torna alla vita”. Si cade e ricade anche cento volte, ma “nessuno ti punta il dito contro”. Perché sei arrivato? Nessuno ti ha costretto. Vuoi andare? Vai. Vuoi restare? Resta. Insomma, “tu e solo tu decidi, è la tua partita, la tua vita”.
“Sono venuto per servire”, diceva sempre il Don. “E io mica l’ho mai capita questa frase”, racconta un’altra “amica della comunità”, come le piace definirsi. Ha il trucco pesante, un cerone da maschera di teatro, di chi è abituata all’oscurità dei bassi dove vivono le “princese”, le transessuali tanto care al Gallo. “Vedi quanta gente? C’è tutta la città. C’è Genova, ‘ianua’, la ‘porta del paradiso’ come la chiamava Andrea”. Un porta bifronte come Giano, il dio dai due volti simbolo della città che guarda contemporaneamente al passato e al futuro. “E al passato c’è don Gallo, cosa ci riserva il futuro non lo sappiamo. E un po’ ci spaventa”.
dal Fatto quotidiano
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