Siamo un Paese che rinuncia al futuro
Pubblicato il 21 mag 2013
Roberto Romano -
La crisi economica internazionale ha colpito tutti i Paesi a capitalismo avanzato. A partire dal 2008 tutti i principali indicatori economici europei, Pil, occupazione, investimenti, produzione industriale, hanno il segno meno davanti ad ogni indicatore da almeno 4 anni, ma l’Italia ha manifestato una caduta di reddito, occupazione, produzione e investimenti molto peggiore della media dei Paesi europei. Per l’Italia, infatti, più che di recessione è più corretto parlare di depressione.
I tassi di crescita del Pil (cumulati) tra il 2008 e il 2013, prendendo per buone le previsioni per 2013 di Eurostat e Def, sono negative per 8,3 punti percentuali, contro una crescita del 4,3% della Germania. Nel periodo considerato nessun Paese di area euro è riuscito a fare peggio. Solo la Spagna si avvicina un po’all’Italia con una crescita negativa di 5,6 punti percentuali. Quindi l’Italia ha maturato un gap di crescita molto prossimo a quello di un Paese sull’orlo di un precipizio. Non bisogna mai dimenticare che un punto di Pil è pari a quasi 15 mld di euro.
Ma come spesso accade, dietro il Pil si celano fattori e oggetti che meglio di altri fotografano la crisi di struttura. Infatti, tra il 2008 e il 2012 i tassi di variazione della produzione industriale cumulata è pari a meno 21%. Tutti i Paesi hanno eroso una parte della propria struttura produttiva, ma il meno 21 per cento dell’Italia non regge il confronto con nessun paese europeo. L’area euro tra il 2008 e il 2012 ha contratto la propria produzione di 10 punti percentuali, mentre la Francia, altro grande ammalato dell’Europa, ha perso il 16%. Quindi, solo l’Italia ha compromesso così in profondità la sua struttura produttiva.
Gli effetti sociali potevano anche essere peggiori se non ci fosse lo stato sociale, al quale, però, non si possono chiedere miracoli.
Le ricadute occupazionali, più precisamente il tasso di occupazione, sono senza precedenti storici. Se consideriamo che il tasso di occupazione dell’Italia, già mediamente più basso di 7 punti percentuali di quello medio europeo, l’ulteriore contrazione di 2 punti percentuali intervenuta tra il 2008 e il 2012, la maggiore tra i paesi di area euro, è lecito sostenere che l’Italia non è più un Paese europeo.
La combinazione di minore crescita della produzione industriale, di minore crescita del Pil e di una ulteriore riduzione del tasso di occupazione, fanno dell’Italia un malato particolare. Parlare di recessione è un eufemismo a buon mercato. L’Italia ha strutturalmente imboccato la strada della depressione.
Ma la situazione economica e industriale è ancora più grave se guardiamo al futuro, cioè alla volontà del sistema industriale nazionale di uscire dalla crisi attraverso nuovi investimenti. L’Italia è sempre stato un Paese che ha investito più della media dei Paesi europei, ma il crollo intervenuto tra il 2008 e il 2012 ha un significato economico storico e senza precedenti. Infatti, l’industria italiana ha sempre investito per inseguire i Paesi che generavano innovazione, cioè gli investimenti, pur non giocando il ruolo strategico che meritavano, hanno concorso a tenere agganciato il Paese all’Europa; nell’attuale situazione, invece, le imprese italiane de-industrializzano. Utilizzando sempre i dati Eurostat, il tasso di variazione degli investimenti è crollato del 17 per cento tra il 2008 e il 2013, contro una media europea del meno 10 per cento. Non tutti i Paesi hanno reagito allo stesso modo. Per esempio, nello stesso periodo, la Germania ha investito il 5,5 per cento in più, la Finlandia l’1 per cento e gli Stati Uniti il 6,5 per cento. In qualche modo l’industria italiana produce beni di consumo immediati, e non si preoccupa più della produzione futura.
Il governo Letta punta su un riordino della pressione fiscale e qualche altro intervento di tutela del lavoro, ma l’impressione è quella di un governo, ma forse anche di un Paese, che ha deciso di rimuovere dalla discussione politica dai problemi veri del Paese. Prima iniziamo a discutere di questi problemi, cioè di depressione, de-industrializzazione, assenza di investimenti, meglio sarà per tutti.
Solo in questo modo sarà possibile discutere dell’abissale distanza dell’Italia dai Paesi che formano l’euro, e impostare una discussione seria su industria, bilancio, occupazione e giovani.
Il Manifesto – 21.05.13
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