La fiducia passaggio obbligato

La fiducia passaggio obbligato

di Massimo Villone -
Incarico pieno, semipieno, semivuoto, preincarico, o cosa? Tutto in realtà gira sul richiamo fatto dal Capo dello Stato a un sostegno parlamentare «certo». È questa la parola chiave che affatica gli esegeti. Aspettiamo ancora il calcio di inizio?
A mio avviso, Bersani l’incarico l’ha di fatto avuto. Nella formula utilizzata dal Capo dello Stato, la parte «sostegno parlamentare» è una ovvietà, in quanto per ipotesi indefettibile. Ma quando è «certo» il sostegno? Soltanto quando si vota, e i numeri lo certificano. Mai prima. Sarebbe forse politicamente auspicabile che così non fosse.
Ma non sarebbe costituzionalmente corretto trovare una condizione insuperabile per la nascita di un governo in una predefinita “qualità” del sostegno parlamentare. Ciò significherebbe assumere a condizione impegni e accordi che non potrebbero mai avere valenza giuridica per lo stesso dettato dell’art. 67 della Costituzione.
E accanto alla strada maestra di una libertà di voto – quella che ha fatto eleggere il presidente del Senato – ci sono poi i viottoli dell’uscita dall’aula, della non partecipazione al voto, dell’astensione. C’è la fiducia, come la non-sfiducia. L’esito di un voto di fiducia, e la sua dimensione numerica, rimangono affidati a una valutazione intrinsecamente probabilistica. Questo si trae anche dai precedenti. Il 24 febbraio 2007 Napolitano respinge le dimissioni presentate da Prodi e lo invita «a presentarsi al più presto al Parlamento, per verificare la sussistenza del rapporto fiduciario». È necessario verificare attraverso il voto di fiducia che vi sia maggioranza anche in Senato. Il 18 aprile 2005, nell’accettare le dimissioni presentate da alcuni ministri e sottosegretari del II governo Berlusconi, Ciampi invita il Presidente del consiglio «a presentarsi senza indugio al Parlamento», che è «la sede propria di ogni chiarimento politico».
Al dibattito parlamentare seguirà la conferma delle dimissioni e la formazione del III governo Berlusconi. Con identica formula ancora Ciampi respinge il 17 aprile 2000 le dimissioni presentate da D’Alema a seguito della sconfitta del centrosinistra nelle elezioni regionali di quell’anno (D’Alema confermerà le dimissioni dopo il dibattito parlamentare). Il 14 ottobre 1997 Scalfaro respinge le dimissioni presentate da Prodi e lo rinvia alle Camere, dove il governo pone la questione di fiducia sulle risoluzioni presentate dalla maggioranza.
Perché al rigetto da parte del Capo dello Stato seguono dibattiti parlamentari, voti di fiducia, conferme delle dimissioni? Perché appunto è il Parlamento la sede propria di ogni chiarimento politico. Non basterebbe l’autocertificazione del Presidente del consiglio che le difficoltà nella maggioranza sono superate. Né il Capo dello Stato potrebbe bypassare il voto avendo previa certezza del risultato. È la valutazione probabilistica che sorregge il rigetto delle dimissioni. Ma il governo vive con la certezza in concreto data dal voto parlamentare.
Una conferma si trova anche laddove certezze politiche preventive sono smentite dai fatti. Così è per Prodi, sconfitto l’8 ottobre 1998 alla Camera – 312 sì e 313 no – su una questione di fiducia. Così è il 14 dicembre 2010 per Berlusconi, dato per sconfitto su una mozione di sfiducia che lo vede invece prevalere – 314 no e 311 sì – grazie a una transumanza di parlamentari. E non è alla fine probabilistica anche la valutazione del Capo dello Stato che il 13 novembre 2011 conferisce a Monti l’incarico per un governo tecnico, «rispettando le posizioni di tutti e le decisioni che in definitiva spetteranno al Parlamento»?
A mio avviso, se Bersani si dicesse in grado di giungere a un esito positivo del voto di fiducia, Napolitano difficilmente potrebbe negargli la formazione del governo e il passaggio del voto nelle Camere. Per tre motivi.
Il primo: non v’è ragione che la valutazione probabilistica di Napolitano prevalga su quella dello stesso Bersani. Il secondo: sarebbe ancor meno certo il sostegno parlamentare a qualsiasi altro governo, come riconosce lo stesso Napolitano quando fonda la sua scelta sul prevalente orientamento delle forze parlamentari. Il terzo: anche un governo tecnico potrebbe poi avere vita più grama se fosse il Capo dello Stato – e non il Parlamento – a negare a Bersani il disco verde. Per non dire dei sussurri malevoli e strumentali che potrebbero nascere su un interesse del Capo dello Stato per un altro governo del presidente, e magari per una nuova “strana maggioranza” disponibile a sostenerlo per un secondo mandato. Cosa che, conoscendo Napolitano, si deve escludere.
Dunque, il pallino sembra al momento nelle mani di Bersani, se vorrà tentare un passaggio parlamentare comunque difficile. Gli potrà essere tolto, ovviamente, ma non dal Capo dello Stato. Piuttosto, dalle convulsioni del Pd, in crisi di identità dalla nascita, e ora anche in crisi generazionale e di leadership. Senza un compatto appoggio del Pd al suo segretario – nel successo o nell’insuccesso – può finire che dall’usato sicuro si passi al nuovo difettoso.

Il Manifesto – 26.03.13


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