Replica di Paolo Ferrero al fattoquotidiano.it
Pubblicato il 4 apr 2014
Rifondazione non è come l’Electrolux
di Paolo Ferrero
In un articolo pubblicato sul Fatto on-line di due giorni fa si dà conto del ricorso di 10 lavoratori contro Rifondazione Comunista. Un articolo che stravolge completamente la realtà a cui rispondo dando la mia versione dei fatti.
In primo luogo è bene ricordare che Rifondazione Comunista partecipò alle elezioni del 2008 all’interno della lista Sinistra Arcobaleno con Fausto Bertinotti candidato Presidente. La lista prese il 3,1% e non elesse alcun parlamentare. La stessa cosa avvenne nel 2009 quando nelle elezioni europee la lista di cui faceva parte Rifondazione si fermò al 3,4% e non elesse alcun parlamentare. Mi ritrovai quindi neosegretario di un partito che non aveva più alcuna presenza parlamentare ma con un numero di dipendenti superiore alle 100 unità. Un numero di dipendenti che nulla aveva a che vedere con le dimensioni effettive del partito e con la sua capacità di autofinanziamento. Oltre a questo il giornale Liberazione, accumulava allora ogni anno perdite milionarie e aveva un organico di circa 60 persone.
Se non si fosse fatto nulla, Rifondazione Comunista avrebbe fatto bancarotta in poco tempo, visto che le uscite erano enormemente più alte delle entrate.
Abbiamo così deciso di fare le seguenti cose: in primo luogo di ridurre drasticamente gli stipendi dei dirigenti a partire dal sottoscritto. In secondo luogo di attivare le procedure per la messa in cassa integrazione di larga parte dei dipendenti. In terzo luogo di proporre a tutti i dipendenti e dirigenti la possibilità di licenziarsi volontariamente in cambio di una buona uscita in denaro. Parallelamente si è operato per una ristrutturazione di Liberazione che portasse ad una drastica riduzione delle perdite.
Siamo così arrivati oggi a 20 dipendenti. La situazione era così evidentemente sbilanciata sul piano economico che nessuno ha mai messo in discussione la necessità di ridurre drasticamente il numero di dipendenti del partito. E’ infatti opportuno ricordare che un partito non è una multinazionale che produce, vende ed incassa a fini di profitto. Rifondazione Comunista è un’associazione volontaria di persone che vogliono cambiare la società e che – nella misura in cui non ha contributi pubblici – si regge solo con le donazioni volontarie dei militanti, non avendo industriali che ci finanziano.
In questo contesto, nel settembre del 2009, vi è stato un primo accordo sindacale che ha previsto la messa in cassa integrazione di una quarantina di dipendenti – tra cui i 10 ricorrenti – la corresponsione di una indennità ai dipendenti stessi e la firma, ovviamente volontaria, da parte di questi dipendenti di non avere nulla in contrario ad essere posti in mobilità.
Al termine del periodo di cassa integrazione, Rifondazione Comunista avrebbe quindi potuto mettere in mobilità questi dipendenti senza alcun problema: era quanto concordato. Il gruppo dirigente di Rifondazione decise però di verificare la possibilità di ottenere ulteriori proroghe di cassa integrazione, in modo da permettere a questi lavoratori di avere più tempo per trovare una ricollocazione. Così avvenne, nessuno venne quindi licenziato allo scadere dei primi due anni di cassa integrazione e Rifondazione Comunista ha continuato a chiedere le proroghe per la cassa integrazione fino a quando questo è stato possibile. Dopo circa 4 anni di cassa integrazione – invece dei due previsti al momento della firma dell’accordo e e della sua accettazione – i dipendenti sono stati effettivamente licenziati e tra questi i 10 che hanno fatto una causa a Rifondazione Comunista. Molti altri se ne sono andati e il sottoscritto, data la mancanza di soldi, è tornato a lavorare in regione Piemonte Part-time.
Questa è la sostanza delle cose, dolorosa perché stiamo parlando della perdita di posti di lavoro, ma mi pare francamente un po’ diverso dall’universo dantesco dipinto dall’articolo del Fatto.
Finisco sottolineando due elementi.
Non è vero che i 10 che hanno fatto causa rappresentino una minoranza politica. Tra i 10, come tra tutti coloro che hanno smesso di lavorare per Rifondazione in questi anni, vi sono persone che hanno appoggiato l’attuale gruppo dirigente, persone che l’hanno avversato, persone che non fanno parte di alcun partito e persone che sostengono altri partiti. Parlare di epurazione politica per i 10 che hanno fatto causa è una menzogna.
Rifondazione Comunista vive grazie all’impegno di militanti e iscritti che non solo dedicano gratuitamente tempo e energie alla politica pulita ma ci rimettono anche di tasca propria. Come in tutte le organizzazioni della sinistra, dell’associazionismo, del volontariato o sindacali, vi sono molti militanti che fanno attività politica più assiduamente, magari percependo un rimborso spese, che poi sono diventati dipendenti per poi magari tornare a fare i militanti. In altre parole, la linea di confine tra militanza e lavoro è assai labile, visto che il fine del partito è la produzione di una attività politica che accomuna militanti volontari e dipendenti. Parlare in questo contesto di lavoro nero è completamente fuorviante. Ad esempio, nessuno dei compagni e delle compagne che dal Piemonte o dalla Lombardia sono andati in queste settimane in val d’Aosta a raccogliere le 3000 firme necessarie per presentare la lista Tsipras è dipendente del partito. Qualcuno avrà avuto un rimborso dal suo circolo, pagato con le quote che versano gli iscritti, che è l’unica fonte di finanziamento di cui disponiamo oggi. E’ lavoro nero? No, è quell’impegno politico che purtroppo qualcuno – con il passare degli anni – non riconosce più come parte della sua esistenza.
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