Ttip, tutto quello che non sappiamo
Pubblicato il 3 apr 2014
di Monica Frassoni - sbilanciamoci.info
Secondo i fautori dell’accordo la riduzione degli ostacoli al libero commercio porterebbe ad un aumento fino allo 0,5-1 percento del Pil. Peccato che si tratta di stime al 2027
Sul tavolo del governo Renzi, prossimo ad assumere la Presidenza di turno dell’Ue, c’è un tema di cui si parla (ancora) poco nel dibattito pubblico, ma è necessario cominciare a discuterne senza perdere altro tempo: il Ttip.
Il 14 marzo si è concluso, con un comunicato stampa molto ottimista e un appuntamento all’estate1, il quarto round di negoziati del Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti tra Ue e Usa, in breve Ttip: il più vasto e complesso accordo commerciale (e non solo) mai tentato.
Secondo i sostenitori dell’accordo, l’eliminazione o la riduzione degli ostacoli al libero commercio rappresentate da leggi e controlli di vario tipo porterebbero ad un aumento fino allo 0,5-1 percento del Pil. Peccato che nessuno precisi che si tratta di stime al 2027 e che non sono presi in considerazione i costi eventuali dell’allentamento di norme in materia di salute o ambiente. Se si guarda con attenzione si scopre allora che le previsioni si basano su cifre imprecise, non tengono conto di tutte le altre conseguenze potenzialmente negative e che l’unico guadagno che si prevede sul breve termine è stimato a 40 euro all’anno per famiglia.
Ma i dettagli non ci è dato conoscerli, perché il Ttip è negoziato nel massimo riserbo, senza che i deputati europei o nazionali abbiano accesso ai termini concreti di ciò che la Commissione, su mandato (segreto) degli Stati membri, discute con gli Usa. Tutto procede a nostra insaputa, fatta eccezione per il testo confidenziale risalente al giugno scorso e pubblicato il 7 marzo da Sven Giegold, deputato europeo dei Verdi ed ex Presidente di Attac Germany.
Sia chiaro, noi siamo più che favorevoli a espandere la cooperazione transatlantica nei settori d’interesse comune e riteniamo importante che gli operatori economici siano i protagonisti della transizione verso un nuovo modello di sviluppo: magari meno “intenso” in consumo di risorse e più attento ai cambiamenti climatici e ai diritti dei lavoratori. Sappiamo, inoltre, che il mondo delle imprese non è tutto uguale. Resta, però, il fatto che oggi il Ttip si sta costruendo come un attacco alla libertà e alle preferenze in molti settori espresse democraticamente dai cittadini, e, nonostante i disastri della crisi dal 2008, ideologicamente orientato verso un’idea di economia senza “qualità” sociale e ambientale. Basato com’è sulla convinzione che l’impresa multinazionale, in quanto sacra fornitrice di lavoro, non possa essere ostacolata da quisquilie come regole su ambiente, finanza, salute (come è stato in passato per la Direttiva Bolkestein, per l’Acta e per il tentativo di cancellare il software libero), auspichiamo che le elezioni di maggio costituiscano un’occasione di mobilitazione massiccia per formare maggioranze capaci di cambiare l’approccio delle relazioni transatlantiche.
Perché, oltre ai contenuti più che discutibili, con il Ttip si pone anche un problema di legittimità democratica. Per quanto si sa del meccanismo che si sta costruendo, verrebbe introdotta una clausola secondo la quale se regole, standard, leggi nazionali o europee in materia di ambiente, salute, finanza, etc. si trovassero in contrasto con gli interessi delle imprese, gli Stati potrebbero essere portati di fronte a corti di arbitrato e obbligati a pagare multe salate. Si tratta dell’Isds (investor-to-state dispute settlement) e consiste in un sistema di regolamento dei conflitti tra Stato e imprese che permette alle imprese di scavalcare le giurisdizioni nazionali, facendo riferimento direttamente a dei tribunali di arbitrato internazionali, spesso composti da avvocati provenienti dalle imprese stesse. È evidente che se si può obbligare uno Stato a pagare una multa perché ha introdotto il salario minimo o regole ambientali che possono ridurre i profitti, la libertà di legiferare e scegliere da parte degli organismi democratici pubblici viene fortemente ridotta.
Siamo di fronte a una situazione molto pericolosa: immaginate cosa accadrebbe se davvero, introdotta l’Isds, 14 mila imprese americane avessero la possibilità di mettere in discussione le leggi nazionali dei paesi Ue tramite le loro 50.800 imprese con sede in Europa.2 Non c’è ragione di credere che questo non avverrà: basta ascoltare quello che dice pubblicamente Stuart Eizenstat, del Transatlantic business council: “Molti standards europei sono ingiustificabilmente alti, e questo non ha basi scientifiche: ciò che va bene mangiare per una famiglia americana, dovrebbe andar bene anche per una famiglia europea”. Il Ttip rischia così di diventare il mezzo per aggirare tutte le norme scomode: dopo gli Ogm, il primo obiettivo sarebbe il famigerato “principio di precauzione”, da tempo considerato da molti esponenti del mondo del business come un vero e proprio freno alla ricerca e allo sviluppo economico, ma ogni settore ha, poi, il suo preferito: dall’industria chimica che vuole addolcire il Reach, a quella della cosmetica che vuole ammorbidire i controlli sui propri prodotti e quella agroalimentare per evitare gli standard di protezione riguardanti, per esempio, la carne.
Ovviamente la Commissione respinge al mittente le accuse di volere ridurre gli standard europei e sostiene che le consultazioni avvengono a tutto tondo, ma il punto è che se si accetta il principio del “riconoscimento mutuo” di standard molto diversi, attraverso le filiali nei vari paesi si potrà approfittare delle differenze regolamentari e di fatto ridurne l’efficacia. Ci sono certamente standard che meriterebbero di essere armonizzati, ma ogni “equivalenza” dovrebbe essere accordata a regole che non possono essere troppo discordi. Peraltro è interessante notare, parlando della “qualità” degli scambi che sarebbe invece possibile incrementare, che il Ttip non contempla la promozione di tecnologie che incentivino la transizione verso un’economia “low carbon” e nulla ci dice che si discuta di eliminare la barriera agli scambi rappresentata dai sussidi alle fonti di energia fossili3. La possibilità di attribuire vantaggi a produzioni e tecnologie a minore impatto sull’ambiente e a maggiore intensità di lavoro di qualità non pare presa in considerazione: un sicuro freno alla transizione ecologica.
C’è un altro modo di costruire un’auspicabile alleanza transatlantica? Con un accordo multilaterale che sia coerente con il “Green new deal”, che implichi politiche contro i cambiamenti climatici e il consumo eccessivo di risorse e che promuova la giustizia sociale e i diritti di chi lavora. Un sogno? No e l’esempio della sconfitta di Acta lo dimostra. Recentemente, più di 200 gruppi europei e statunitensi hanno protestato contro il Ttip e anche nel Congresso americano ci sono voci contrarie a questo accordo. Importante ora è aumentare la consapevolezza e l’informazione, anche in vista delle elezioni europee. Con l’Italia che si prepara alla presidenza europea in un periodo importante per i negoziati con gli Usa, è bene sapere che facendo fronte comune con organizzazioni della società civile, sindacati, gruppi di consumatori, ma anche partiti come i Verdi europei, si può ancora cambiare strada.
1 http://trade.ec.europa.eu/doclib/press/index.cfm?id=1041
2 http://europeangreens.eu/brussels2014/content/position-paper-ttip
3 «Pagate con soldi pubblici per mandare in tilt il clima, le fonti fossili ricevono 100 $ per ogni tonnellata di CO2 che rilasciano. Aiuti di Stato per 523 miliardi di dollari contro gli 88 andati alle rinnovabili. E solo il 20% per aiutare i ceti deboli. Fatih Birol, capo economista della IEA, torna a denunciare i sussidi pubblici alle fossili. In Italia sono oltre 9 miliardi di euro all’anno.» http://www.qualenergia.it/articoli/20130206-troppi-sussidi-alle-fonti-fossili-il-messaggio-di-fatih-birol
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