L’ecosistema urbano è un bene comune

L’ecosistema urbano è un bene comune

di Piero Bevilacqua – il manifesto -

Che la città nasca, si con­servi e si svi­luppi all’interno di una rete di con­di­zio­na­menti ambien­tali è una con­qui­sta sor­pren­den­te­mente recente del pen­siero sociale. Solo il pro­gre­dire, negli ultimi decenni, della cul­tura ambien­ta­li­stica e – per il nostro caso – dell’ecologia urbana, hanno comin­ciato a disve­lare ciò che a lungo la cul­tura domi­nante aveva tenuto nasco­sto. Vale a dire i vin­coli di risorse e le con­di­zioni di habi­tat entro cui sono sorte e vivono le città. E non a caso le ragioni di un così lungo e per­du­rante occul­ta­mento risie­dono nelle con­di­zioni mate­riali del loro stesso suc­cesso, della loro espan­sione: in primo luogo il mer­cato. Nel suo sag­gio Die Stadt Max Weber non ha dubbi sul fatto che, con­di­zione essen­ziale «per­ché si possa par­lare di città è l’esistenza nel luogo dell’insediamento di uno scam­bio di pro­dotti – non sol­tanto occa­sio­nale ma rego­lare — quale ele­mento essen­ziale del pro­fitto e della coper­tura del fab­bi­so­gno degli abi­tanti: l’esistenza di un mer­cato».
Anche allor­quando gli stu­diosi pren­dono in con­si­de­ra­zione una delle risorse natu­rali più ovvie, con­di­zione impre­scin­di­bile per la nascita e la vita di un aggre­gato di popo­la­zione, l’acqua di un fiume, ne sot­to­li­neano il rilievo quale infra­strut­tura ideale per i flussi di mer­cato. È il caso, ad esem­pio, di uno stu­dioso come Lewis Mum­ford, pur attento agli aspetti siste­mici del mondo urbano. Nella sua monu­men­tale La città nella sto­ria – meri­to­ria­mente ripro­po­sta ora da Castel­vec­chi — egli con­si­dera il fiume esclu­si­va­mente come «il primo vei­colo effi­cace per il tra­sporto di massa». E aggiunge: «Non è un caso che le prime città siano sorte nelle valli flu­viali, e che la loro ascesa sia con­tem­po­ra­nea ai pro­gressi della navi­ga­zione, dal fascio gal­leg­giante di giun­chi o di tron­chi alla barca mossa dai remi e dalle vele». Mum­ford non è solo in que­sto richiamo del fiume che dimen­tica la risorsa acqua: «Lon­dra dipende dal suo fiume», afferma peren­to­ria­mente Brau­del, ma si rife­ri­sce ai traf­fici che esso rende pos­si­bili, all’intensa vita eco­no­mica che si svolge lungo il Tamigi e soprat­tutto nell’area della sua foce.
Natu­ral­mente, non si tratta di negare il ruolo di mezzo di tra­sporto dei corsi d’acqua, peral­tro dotati di una loro ener­gia motrice e dun­que, per più versi, pre­zioso per i biso­gni delle popo­la­zioni urbane in età pre­in­du­striale. Ma il tra­sporto e il com­mer­cio rap­pre­sen­tano già una forma eco­no­mi­ca­mente evo­luta della stan­zia­lità urbana, fun­zio­nal­mente sepa­rata dalla vita agri­cola. E tut­ta­via a lungo insuf­fi­ciente a ren­dere le città auto­nome dalle loro fonti di approv­vi­gio­na­mento, costi­tuite dai ter­ri­tori agri­coli dei loro din­torni.
D’altra parte, prima di com­mer­ciare e di spo­starsi i primi cit­ta­dini dove­vano vivere e dun­que ave­vano asso­luto biso­gno di bere. Eppure non c’è trac­cia, anche in grandi sto­rici che si sono occu­pati di città, di accenno a tale ele­men­tare biso­gno della vita, risorsa impre­scin­di­bile dell’ umana esi­stenza. Quasi che il com­mer­ciare fosse la prima con­di­zione della vita urbana e non un suo com­ple­mento, spesso uno sta­dio suc­ces­sivo di evo­lu­zione. La vita, nella ovvietà dei suoi biso­gni e delle sue mani­fe­sta­zioni, diventa degna di nota quando acqui­sta un rilievo eco­no­mico. Anche Fer­nand Brau­del, nel vasto affre­sco del suo Medi­ter­ra­neo, che ha inse­gnato a tutti noi come la sto­ria si svolga negli spazi fisici delle mon­ta­gne e delle pia­nure, non ha occhi che per le con­di­zioni com­mer­ciali dell’esistenza urbana. «Non c’è città senza mer­cato e senza strade: esse si nutrono di movimento».

Oggi, nella fase sto­rica in cui il mer­cato mon­diale pene­tra negli anfratti più recon­diti della vita locale, è ancora visi­bile un eco­si­stema come inte­la­ia­tura fon­da­men­tale della vita urbana? Men­tre le città rice­vono tutto ciò che è loro neces­sa­rio da ter­ri­tori lon­tani e anche lon­ta­nis­simi, pos­siamo guar­dare ad esse come a nuclei di realtà mate­riale con­di­zio­nati, se non domi­nati, da vin­coli natu­rali costanti e neces­sari? Si tratta, in verità, di domande reto­ri­che. L’ecologia urbana della seconda metà del ’900 ha messo da tempo in evi­denza i carat­teri eco­si­ste­mici dell’ambiente urbano con approcci e con­tri­buti mol­te­plici. In realtà oggi si pre­senta ai nostri occhi una rete ambien­tale che avvolge il mondo (non diversa da quella, in con­ti­nua espan­sione, delle comu­ni­ca­zioni) ma tenuta insieme da regole e vin­coli eco­si­ste­mici. La osser­viamo distin­ta­mente man mano che ci libe­riamo della scorza dell’economicismo di cui è incro­stato il pen­siero sociale con­tem­po­ra­neo. Allor­ché scor­giamo l’universalità di beni comuni di cui si com­pone la città, là dove prima l’osservatore non scor­geva che un pae­sag­gio di res nul­lius, o solo un sistema di domini pri­vati. E a tal fine appare indi­spen­sa­bile libe­rare la figura dell’uomo cit­ta­dino dalla sua sovra­strut­tura ideo­lo­gica di essere sociale, mero pro­dotto della sto­ria, fab­bro di se stesso tra­mite il domi­nio tec­nico sulla natura.
È tale ope­ra­zione di disve­la­mento che ci con­sente di guar­dare agli uomini quali sog­getti viventi, mem­bri della “comu­nità bio­tica” che popola la fore­sta urbana. La città è un eco­si­stema innan­zi­tutto per­ché gli uomini non hanno mai ces­sato di essere natura.
È infatti il para­dosso del suc­cesso tota­li­ta­rio dell’uomo tec­nico a disve­lare i legami non rese­ca­bili con la realtà bio­lo­gica. Pen­siamo al rap­porto tra città e dina­mi­che del clima. Sono ormai parec­chi anni che gli epi­sodi cli­ma­tici estremi (allu­vioni, tor­nado, ecc) in varie città del mondo, dagli Usa all’Europa, mostrano come le città non sfug­gano al sistema cli­ma­tico gene­rale e al suo cre­scente disor­dine. È ormai di domi­nio popo­lare che la cre­scente coper­tura del suolo con le strut­ture dell’edificato impe­di­sce in maniera cre­scente l’assorbimento dell’acqua pio­vana. In caso di piog­gia intensa – feno­meno che appare ormai sem­pre più rego­lare a tutte le lati­tu­dini — le strade diven­tano fiumi, rovi­nosi corsi d’acqua e gli abi­tati ven­gono alla­gati come comuni golene di espan­sione. Ma è esat­ta­mente nei momenti dram­ma­tici delle cala­mità, che essa ci fa com­pren­dere una realtà soli­ta­mente celata: il ter­ri­to­rio urbano non si esau­ri­sce nello spa­zio edi­fi­cato.
D’altra parte, tali feno­meni sve­lano un legame prima invi­si­bile tra gli uomini e l<CW-23>’habitat urbano. Ma al tempo stesso fanno emer­gere alla con­sa­pe­vo­lezza gene­rale l’esistenza di alcuni beni comuni per effetto della loro vio­la­zione, della loro messa in peri­colo. È evi­dente che l’edificazione dif­fusa, l’occupazione degli spazi incolti e col­ti­vati, la restri­zione dei ter­ri­tori agri­coli periur­bani, hanno riflessi cre­scenti su un diritto fon­da­men­tale dei cit­ta­dini: quello della sicu­rezza, dell’incolumità della per­sona. Sic­ché una occu­pa­zione del bene comune suolo per mano dei sin­goli pri­vati, che edi­fi­cano per loro spe­ci­fico inte­resse, si con­fi­gura sem­pre più niti­da­mente come in con­flitto con il bene comune della sicu­rezza di tutti. In caso di piogge intense le città diven­tano peri­co­lose per tutti i suoi abi­tanti. Il danno par­ti­co­lare che l’uso pri­vato del suolo genera nei con­fronti dell’universalità dei cit­ta­dini disvela così uno spe­ci­fico carat­tere eco­si­ste­mico dell’azione umana in città. Non si pos­sono mutare gli equi­li­bri natu­rali di un habi­tat pur arti­fi­ciale senza effetti e rot­ture in qual­che punto del sistema. E soprat­tutto senza con­se­guenze sul Dedalo inge­gnoso che quel sistema ha costruito. Non si può pen­sare al ter­ri­to­rio come a un mero sup­porto neu­tro sopra il quale “pog­giare” qua­lun­que edi­fi­cio: esso non è nudo suolo, appar­te­nente a vari pro­prie­tari che pre­ten­dono di rica­varvi una ren­dita, ma è il fram­mento di una rete eco­si­ste­mica entro la quale siamo tutti impi­gliati.
Il rap­porto siste­mico della città con il suo ter­ri­to­rio più o meno pros­simo emerge oggi anche dalla rot­tura di un equi­li­brio mil­le­na­rio con la cam­pa­gna, cui abbiamo già fatto cenno. Il muta­mento dram­ma­tico, in qua­lità e quan­tità, della massa dei rifiuti urbani ha creato feno­meni ignoti a tutte le società del pas­sato. Se un tempo la gran parte delle deie­zioni cit­ta­dine veniva util­mente con­su­mata dalle agri­col­ture cir­co­stanti in forma di fer­ti­liz­zanti, esse for­mano oggi un’appendice urbana che occupa e inquina ter­ri­tori più o meno pros­simi, con danni alle acque, all’aria, alla salute degli ani­mali e dei cit­ta­dini nelle varie casi­sti­che osser­va­bili in giro per il mondo.

Non meno noto è diven­tato il legame siste­mico tra il cielo della città, vale a dire la qua­lità dell’aria che in essa si respira, e la sua mani­po­la­zione, insieme pri­vata e col­let­tiva, a scopi pro­dut­tivi e di varia altra natura. Il sor­gere di un rischio per la salute umana, esploso in maniera allar­mante negli ultimi decenni, ha fatto emer­gere quale bene comune una risorsa vitale irri­nun­cia­bile, fino a pochi decenni fa da tutti igno­rata in quanto illi­mi­tata e rela­ti­va­mente inte­gra. L’aria è un com­mon. Noi tutti respi­riamo l’aria che ci cir­conda senza pen­sare ai nostri pol­moni, ma anche senza badare al fatto che essa è natura, che da essa dipende la nostra vita, e cer­ta­mente senza chie­derci a chi appar­tiene. Ma l’apparire della scar­sità di que­sta risorsa, la sua vio­la­zione e alte­ra­zione (che cor­ri­sponde a una appro­pria­zione pri­vata dei sin­goli) fa emer­gere l’elemento natu­rale che rende pos­si­bile l’esistenza di tutti e al tempo il suo carat­tere di bene col­let­tivo e indi­vi­si­bile.
In que­sto spe­ci­fico caso appare assai dif­fi­cile sepa­rare l’interesse pri­vato di chi immette smog nello spa­zio urbano, usando un pro­prio mezzo di tra­sporto, da chi respira l’aria inqui­nata men­tre cam­mina per la città. In un gran numero di casi quel pedone costretto a respi­rare il cock­tail foto­chi­mico di ani­dride car­bo­nica , di sol­fato di zolfo, par­ti­co­lato e vari altri inqui­nanti, il giorno dopo, a bordo della sua auto, sarà tra la schiera degli inqui­na­tori. Il bene comune dell’ aria salu­bre e il diritto uni­ver­sale alla salute ven­gono vio­lati siste­ma­ti­ca­mente anche da chi quel danno subi­sce, a sua volta, in quanto abi­tante di una città, utente dello spa­zio pub­blico. Appare qui evi­dente che la rap­pre­sen­tanza e la difesa del bene comune salute è affi­data a una auto­rità terza in grado di com­porre il diritto e il biso­gno della mobi­lità dei cit­ta­dini con quello di respi­rare un’aria non inqui­nata.
Tut­ta­via appare anche in que­sto caso ben visi­bile la con­fi­gu­ra­zione del mondo urbano quale eco­si­stema: l’uso pri­vato e col­let­tivo dell’habitat ha con­se­guenze sugli attori natu­rali che lo mani­po­lano e lo abi­tano, non diver­sa­mente da quanto accade in natura, allor­ché un qual­che agente rompe un equi­li­brio con­so­li­dato. Se un ambiente acqua­tico si pro­sciuga a causa di un inter­vento dell’uomo o per una pro­lun­gata sic­cità, la vita degli uccelli, dei pesci e dei mam­mi­feri che l’abitavano ne viene scon­volta.
Intanto, senza che nes­suno lo notasse, senza sofi­sti­cate ela­bo­ra­zioni teo­ri­che, sotto il cielo delle città un bene comune fon­da­men­tale è stato sto­ri­ca­mente ripar­tito e rego­lato con cri­teri ega­li­tari fra i suoi innu­me­re­voli frui­tori. Com’è noto, lo spa­zio adi­bito alla libera cir­co­la­zione di uomini e vei­coli non cono­sce signi­fi­ca­tivi impe­di­menti e domini pri­vati e par­ti­co­lari. Al con­tra­rio lo spo­sta­mento su strada è reso pos­si­bile da regole uni­ver­sali che danno pari diritto di movi­mento a tutti gli utenti. Quello spa­zio pub­blico è stato infatti ripar­tito in un reti­co­lato di pos­si­bi­lità e divieti in cui cia­scuno eser­cita il pro­prio diritto a spo­starsi rispet­tando quello degli altri. Il sema­foro rosso che impe­di­sce al sin­golo utente di tran­si­tare all’incrocio è un obbligo che lo costringe a non con­si­de­rare lo spa­zio urbano come un domi­nio par­ti­co­lare che può uti­liz­zare a pro­prio arbi­trio. Qua­lun­que sia la potenza e il lusso del vei­colo che guida, qua­lun­que sia il ruolo sociale, la ric­chezza, la potenza gerar­chica del gui­da­tore, quel rosso è un impe­di­mento da rispet­tare. È con­di­zione della sua sicu­rezza e di quella degli altri. Si è tutti alla pari nello spa­zio aperto delle strade cit­ta­dine. Una gram­ma­tica uni­ver­sale si impone su tutti. Ed è gra­zie a tale ega­li­ta­ri­smo che viene pro­tetto il bene comune dell’incolumità fisica dei cit­ta­dini. Solo i pari diritti di spo­sta­mento di cui godono tutti con­sen­tono l’uso otti­male del bene comune del ter­ri­to­rio urbano. Forse è qui il modello di uso ega­li­ta­rio della città, del suolo, dell’aria, delle risorse a cui occor­rerà uni­for­marsi in futuro.

Lo sce­na­rio cli­ma­tico che le cono­scenze scien­ti­fi­che del nostro tempo hanno squa­der­nato davanti a noi ci mostrano oggi un altro aspetto di legame siste­mico tra la città, i suoi attori natu­rali, e il più vasto spa­zio pla­ne­ta­rio. Le città ci fanno spe­ri­men­tare la nuova mon­dia­lità del locale. Mai come oggi esse erano apparse così niti­da­mente quali punti inter­con­nessi di una rete a scala glo­bale. Com’è lar­ga­mente noto, è lo smog cit­ta­dino, sono gli sca­ri­chi urbani e i fumi indu­striali per pro­du­zioni desti­nate alle città a deter­mi­nare una per­cen­tuale rile­vante di immis­sione di gas serra nell’atmosfera.Tutte le città del mondo, cen­tri ener­gi­vori di varie dimen­sioni e potenza, con­su­mano in maniera cre­scente petro­lio e car­bone, alte­rando il clima atmo­sfe­rico, sur­ri­scal­dando il nostro comune tetto di abi­tanti della Terra. Il riscal­da­mento glo­bale, potremmo dire, è figlio del meta­bo­li­smo urbano.
Vale la pena inol­tre osser­vare che il riscal­da­mento urbano tende a raf­for­zare i suoi effetti per via della stessa mani­po­la­zione ter­ri­to­riale che espone le città agli alla­ga­menti perio­dici. La scom­parsa degli orti periur­bani, il taglio di alberi, la cemen­ti­fi­ca­zione dif­fusa, la can­cel­la­zione pro­gres­siva del verde, tutta la mul­ti­forme e mole­co­lare atti­vità di con­sumo dei suoli incolti, non solo con­tri­bui­sce alla pro­du­zione di car­bo­nio e alla can­cel­la­zione di fonti pro­dut­trici di ossi­geno, incre­men­tando così il riscal­da­mento glo­bale. Essa ha anche un effetto locale e rav­vi­ci­nato. Accre­sce il riscal­da­mento del clima in città. Estati roventi atten­dono gli abi­tanti dei cen­tri urbani in ogni angolo del mondo. E il clima, sotto la minac­cia della sua grave alte­ra­zione, imma­gi­nato per tutta la pre­ce­dente sto­ria umana come non con­di­zio­na­bile dalla nostra azione, è un bene comune sem­pre più pre­zioso per le nostre sorti. E anch’esso mostra come l’azione di alte­ra­zione degli habi­tat da parte dei sin­goli, fino ad oggi iscritta dall’ideologia domi­nante nel regno intan­gi­bile della libertà, opera nei fatti in danno cre­scente del bene comune del clima, con­tri­bui­sce a ren­dere rovente il tetto della casa comune.


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